L'EDITORIALE DELLA DOMENICA. Ma chi soccorre i Pronto soccorso?
Aggiornamento: 7 apr 2023
di Michele Ruggiero
Un girone dantesco per chi entra e per chi vi opera. C'è concordanza di giudizio oramai nel descrivere l'immagine di che cosa sono diventati oggi i Pronto soccorso, l'ultimo miglio da percorrere, ma con speranza, per quanti si ritrovano in bilico tra la vita e la morte. E l'articolo pubblicato ieri di Gian Paolo Zanetta sulla cronicità[1], è un affaccio diretto sugli effetti perversi di questo gigantesco problema che investe la gestione della salute del nostro Paese, ricadendo con fragore sulle strutture di prima emergenza.
La sanità italiana è in debito di ossigeno non soltanto economico, quanto a idee e a progettualità, e i Pronto soccorso, che annaspano anche a causa della condizione demografica schiacciata da tassi di crescita superiori dell'invecchiamento[2], sono lo specchio di una società in cui il disagio è dilagante per la sensazione sempre più epidermica dei cittadini dell'abbandono di una visione comunitaria del diritto alla salute. Una caduta di ideali che rende feconda la prossimità del "privato è bello", parafrasando il titolo di un famoso libro dell'economista Ernst Schumacher, ma che mette in ombra le ripercussioni negative per milioni di individui, privati di una sicurezza che sembrava eternizzabile.
Nei decenni il Pronto soccorso ha cambiato pelle e si è progressivamente allontanato con preoccupante devianza dall'immaginario collettivo che lo voleva luogo di salvezza in cui si verificavano anche "i miracoli" per coloro che arrivavano in condizioni estreme, vittime per lo più di incidenti stradali, di infortuni sul lavoro, di infarti o altre patologie cardiorespiratorie.
Ma se gli indicatori del numero di passaggi in costante rialzo nei Pronto Soccorso diventano la cartina di tornasole dei ritmi ossessivi e fuori controllo cui è sottoposto il personale medico e paramedico, meno spiegano gli stessi se non sono disaggregati per patologie seguite, i rischi di burn out, i livelli di logoramento incombente e, elemento ancora più grave, l'assuefazione al logoramento che opprime quella comunità professionale e i sentimenti contrastanti che dilaniano i pazienti e i loro parenti.
Un'ora trascorsa al Pronto Soccorso ad osservare una realtà prismatica in cui più che i volti, sono le parole, i gemiti, i lamenti, i pianti a coniugare il dolore con la speranza, equivale a una serie di lezioni di vita vissuta che sopprime sul nascere l'idea di risolvere il racconto con la retorica dei medici e degli infermieri "eroi", fuorviante narrazione ereditata dalla pandemia che oggi si è opacizzata, perché l'eroe in servizio permanente effettivo ridiventa un essere normale e di riflesso normali ridiventano i nostri compartimenti, atteggiamenti, prevenzioni, critiche in libertà, con quest'ultime che non di rado si trasformano in autentiche aggressioni fisiche.
L'arrivo delle barelle è la prima delle lezioni di vita che ti costringe a meditare sullo scarto tra la velocità delle operazioni e il blocco che si registra all'ingresso per l'imbuto determinato dal sovraffollamento, con i volontari delle ambulanze che si ritrovano a esplicare compiti non propri, costretti il più delle volte ad assistere e rassicurare il paziente e il loro congiunto, se è fortunatamente presente, a interrogare i medici sui tempi di accettazione, perché dal loro ritorno a disposizione in strada può dipendere la vita di altre persone.
Questioni note e denunciate ripetutamente. Ma a quanto pare non è cambiato nulla, se non in peggio. Così i Pronto soccorso sono diventati simili a discariche della salute. La salute che se ne va, in cui le patologie si selezionano in base al colore dei codici per poi confondersi nell'indefinito di spazi comuni, in cui i medici, malpagati, che sognano di fuggire come i prigionieri di Alcatraz, diventano uno, nessuno, centomila, costretti a dare una risposta, direttamente o indirettamente, ad ogni malato. Comunque.
Così, chi opera nei Pronto soccorso è sempre più consapevole che l'umanità del proprio intervento si riduce a disumanità nella soluzione di pazienti attendati in stanze o accampati lungo i corridoi con le flebo nel braccio o gli elettrodi applicati al torace per gli elettrocardiogrammi. Donne e uomini in una promiscuità cui si chiede intimamente di chiudere gli occhi, di non vedere chi gli sta accanto, per non dare voce al proprio pudore violato, al disagio che invade e soffoca la mente per trasformarsi nella paura di essere dimenticati. Una realtà diversa da quella mitizzata dalle diseducative serie televisive, in cui medici e pazienti sembrano un'unica squadra che concorre all'Oscar delle buone maniere, delle straordinarie intuizioni e delle felici soluzioni. E, aggiungiamo per picconare quelle certezze, delle falsità prodotte su scala industriale.
Come se ne esce? Le prospettive non sono ottimistiche. Le terapie d'urto che dovrebbero essere applicate ai Pronto soccorso si scontrano con la resistenza di un sistema che ha fatto proprio della crisi il suo principale scudo. I pazienti, infatti, sono autentici scudi umani, perché anche nella crisi più profonda, i Pronto soccorso non possono collassare, devono andare avanti indipendentemente e indifferentemente dalla qualità offerta, e anche se questa scade fino a perdere dignità, rimane sempre più del niente mischiato al nulla.
I manager della sanità sostengono, non a torto, che il caos dei Pronto Soccorso si può evitare se "a monte e valle", il sistema assicura le cure del caso riservando loro soltanto l'intervento di esclusiva competenza. All'opposto, il "territorio" non filtra per cui sui Pronto soccorso ricade l'indefinibile e l'indicibile. E qui si apre la finestra su l'altro corno del problema, che associa i medici di famiglia alle liste di attesa, ai Pronto soccorso usati come scorciatoia (il ticket per i codici bianchi non si è rivelato un utile deterrente, ma ha concorso ad aumentare la confusione con la saturazione delle procedure burocratiche) per esami, visite specialistiche e controlli che non sono programmati in tempi ragionevoli.
E' di recente conio la polemica tra i consiglieri d'opposizione Pd, Daniele Valle e Domenico Rossi, e il presidente della Giunta regionale del Piemonte Alberto Cirio e l'assessore alla sanità Luigi Icardi proprio sulle liste d'attesa, con i primi che accusano l'esecutivo di piazza Castello di privilegiare gli annunci alla soluzione del problema, di sfalsare con il linguaggio dell'ottimismo una realtà drammatica. Al netto degli attriti e schermaglie funzionali a opposizione e maggioranza a un anno dalle elezioni e all'esigenza di istradare lo scontro elettorale su un tema di immediata presa, che tocca una miriade di nervi scoperti e che vale l'80 per cento del bilancio regionale, le liste di attesa sono un vulnus che concorre a sfregiare l'efficienza dei Pronto soccorso, ma di cui si è come accettata pubblicamente la inefficienza da parte, in primis, di chi dovrebbe programmare la sanità pubblica e in seconda battuta, da coloro cui spetta la responsabilità diretta.
Ma al vertice della piramide dell'inefficienza c'è lo Stato che ha abdicato al suo ruolo di controllore (e riparatore) delle diseguaglianze e delle ingiustizie sociali, che dà l'impressione quotidiana di aver abiurato l'articolo 32 della Costituzione garante della salute del cittadino e della collettività in condizioni di eguaglianza, a partire proprio dalla cura dei Pronto soccorso, non ultimo, ma primo anello di garanzia per chi affida l'esercizio dei suoi diritti a una comunità.
Note
[2] In Italia, la quota di anziani sul totale della popolazione al 2014 era del 21,4%. Oggi le malattie cronico-degenerative pesano sulla quotidianità di 4 persone su 10, vuol dire 24 milioni di italiani che nei prossimi dieci anni cresceranno ulteriormente e progressivamente.
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