L’11 Settembre degli Usa, dalle Torri gemelle a Stevens e Allende
di Michele Ruggiero|
Cominciano ad essere davvero tanti gli 11 settembre dell’America, anche se non tutti possono essere messi sullo stesso piano per dolore, responsabilità e ferite aperte. Ma tutti sembrano avere una matrice comune nell’indifferenza o scarsa attenzione al senso della conseguenza. Lo è nella superficialità con cui sono state catalogate le informazioni dell’intelligence prima dell’11 settembre del 2001. Lo è nella disinvoltura con cui l’11 settembre del 2012 sono stati piegati a ragioni politiche contingenti i dati di realtà da cui è scaturita l’uccisione a Bengasi dell’ambasciatore americano Chris Stevens, un esperto di politica estera che aveva avuto un ruolo centrale nella caduta e nella morte del leader libico Gheddafi. Lo è, infine, nel ricordo dell’11 settembre 1973, quando un golpe militare foraggiato dagli Stati Uniti sospese per circa vent’anni le libertà civili e politiche in Cile.
Prima dell’11 settembre 2001
L’11 settembre 2001 ha partorito la guerra in Afghanistan, durante la quale gli Usa sotto l’amministrazione George W. Bush hanno smarrito anno dopo anno il perché di quell’azione di forza, ma hanno sempre avuto chiaro l’ingente ritorno economico per l’apparato industriale-militare e per le lobby finanziarie, causa prima del castello di falsità con cui si sono costruite e giustificate l’invasione dell’Iraq, la caduta di Saddam Hussein e la destabilizzazione in Asia centrale che oggi l’Occidente paga con tassi salati di interesse composito.
L’11 settembre 2012 è la data dell’attacco terroristico di un gruppo islamico al consolato Usa di Bengasi, in cui muore l’ambasciatore Chris Stevens e tre uomini delle forze di sicurezza. Un episodio su cui, superato il clamore per l’uscita nel 2016 del film 13 Hours di Michael Bay (tratto dal libro di Mitchel Zuckoff) che narra gli eventi della giornata, è caduto il silenzio. L’America non riesce a dare una risposta a quel dramma perché non ha risposte sul disastro libico, sulla conseguenza di un atto di forza che ha generato la guerra del “tutti contro tutti”, con signori della guerra che si ergono contemporaneamente a capi di una nazione che esiste soltanto sulla carta e sulla riserve petrolifere.
L’11 settembre del 1973 racconta l’America in presa indiretta: l’inizio di un golpe militare a Santiago del Cile, favorito dagli intrighi della CIA, che due anni dopo il regista Giuseppe Ferrara documenterà nel film “Faccia di spia”. Quell’11 settembre è passato alla storia con uno scatto in bianco e nero che racconta la fine di un uomo, un presidente, un socialista: indossa l’elmetto e imbraccia un mitra ed è disposto a sacrificare la sua vita per difendere la Costituzione del Cile. Morirà di lì a poco quell’immagine-simbolo che farà il giro del mondo. Nella foto non c’è sangue, ma tutti sanno che c’è ed è tanto, è il sangue di un intero popolo cui i militari hanno reciso il desiderio di una società più giusta, in cui i pochi ricchi sono un po’ meno ricchi e i tanti poveri sono meno poveri.
Ma il governo di Allende che ha vinto democraticamente le elezioni nel 1970 non piace all’establishment Usa. Alla Casa Bianca c’è un presidente repubblicano tormentato nel rapporto con se stesso e con il potere, pericolosamente succube del suo personale e soprattutto labile, concetto di democrazia. Si chiama Richard Nixon. Negli anni Cinquanta è stato il vice del presidente D.W. Eisenhower. Anni di caccia alle streghe, in cui ha maturato una paranoica ossessione del comunismo e di ogni tendenza liberal. Sarà la cronaca a spiegare che quella paranoia gli ha bruciato i freni inibitori per cui tende a far prevalere in ogni situazione il primato del fine sui mezzi. Gli elettori americani lo scopriranno sbalorditi con una parola che sembra la pubblicità di una bevanda: Watergate.
Nel 1973, quindi, Nixon e il suo brillante segretario di Stato Henry Kissinger hanno un problema, che si aggiunge all’improcrastinabile disimpegno dalla guerra del Vietnam: il Cile. Nixon e Kissinger temono che l’onda socialista cilena, sospinta da Cuba e dal carisma di Fidel Castro, si propaghi nell’intera America Latina. Si tratta sic et simpliciter dell’applicazione della dottrina Monroe, che dal 1823 ha ratificato l’egemonia degli Stati Uniti sul continente americano. E in Cile, agenti della Cia sono al lavoro per contrastare e minare la solidità del governo Allende.
Il piano trova sponda nei vertici militari. L’11 settembre del 1973 il comandante in capo dell’Esercito, generale Augusto Pinochet si rivolta contro chi lo ha nominato appena il mese precedente. Il golpe è rapido. Allende, assediato nel palazzo presidenziale de La Moneda bombardato anche da incursioni aeree, non s’arrende, combatte, infine si suicida. In Cile inizia il terrore criminale negli stadi e nelle carceri, tra fucilazioni e torture. Con Pinochet vince lo stile americano: agire con forza, indipendentemente dalle conseguenze politiche e sociali. Ed è uno stile che esalta lo staff di Nixon che affina un piano comune per il controllo dell’intera America Latina d’intesa con le polizie segrete, gruppi paramilitari, organizzazioni fasciste di quei paesi. Il piano ha un nome in codice che proietta cupe intenzioni: “Operazione Condor”. Servirà a far scomparire decine di migliaia di militanti di sinistra, sindacalisti, oppositori politici cattolici, con il sostegno di un’America che si erge e continua ad ergersi a baluardo della libertà.
Un cliché che si è consumato, logorato, diventato persino imbarazzante in questo 11 settembre 2021 in cui i talebani si possono permettere il lusso di non ostentare la nascita ufficiale del loro governo ad interim. In fondo, lo stato islamico degli studenti coranici poggia già su un vanto difficilmente confutabile e che rimarrà impresso come un simbolo nella loro storia: aver vinto senza la necessità di sparare un solo colpo contro la potenza Usa, né contro l’esercito regolare afghano. Ma Joe Biden questo non l’aveva previsto.
Il non prevedere, appunto, è diventato una costante nella politica estera americana che si nutre di alleanze o di amici border line con la convinzione (errata) di controllarne le deviazioni e le autonomie. All’opposto, a fianco alle amministrazioni Usa sono nate e cresciute creature mostruose, idre malefiche, che le hanno costrette ad autentici viaggi all’inferno. L’Operazione Condor porta l’omicidio addirittura in casa, a Washington, con un’autobomba che esplode il 21 settembre del 1976 mettendo fine alla vita di Orlando Letelier, ministro in esilio della giunta Allende. Un omicidio ordito dalla famigerata Dina, la polizia segreta cilena che agisce a stretto contatto con la CIA. L’anno precedente gli stessi sgherri di Pinochet, il 6 ottobre 1975, erano entrati in azione a Roma per uccidere il democristiano cileno in esilio Bernardo Leighton Guzmàn che si era opposto al golpe militare. Più colpi erano andati a segno, ma pur ferito gravemente, Leighton si salva.
Malefiche situazioni che si rivoltano contro. Soltanto un caso? O non è estranea l’insofferenza della superpotenza alle strategie di largo respiro e di lungo periodo che travolgono, per esempio, a Bengasi l’ambasciatore Stevens e l’amministrazione Obama? La presenza su più teatri geopolitici e l’abitudine a decidere in proprio, incurante delle obiezioni (plausibili) degli alleati (Nato), non ha facilitato in America la costruzione di una solida memoria storica, per cui le amministrazioni anche nella loro discontinuità politica (anzi, a maggior ragione) si sono sentite come autorizzate a proseguire da un disastro all’altro, da una tragedia all’altra, senza soluzione di continuità.
Tutto ciò a quale fine? La destabilizzazione ad oltranza del mondo? Non entreremo nel “buco nero” del complottismo, materia incandescente, estremamente pericolosa da maneggiare. Però, non si può fare a meno, a vent’anni dall’attacco alle Torri gemelle, di ripensare ai contorti rapporti tra le 14 agenzie di intelligence interne US, ai gruppi di potere che si raggrumavano all’epoca attorno alla “trimurti” della Casa Bianca, il presidente Bush, il “vice” Cheney, il segretario della Difesa Rumsfeld, con i vertici di CIA e forze armate seduti attorno. Un capitolo ancora tutto sotterraneo da esplorare le cui ramificazioni arrivano fino all’Afghanistan di oggi e alla probabile guerra civile che si scatenerà non appena la parabola dei talebani si avvierà al declino.
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