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In coda al Giorno del Ricordo tra ricerca storica e propaganda politica

Anche quest’anno abbiamo avuto modo di constatare come i giorni immanenti al 10 febbraio e lo stesso Giorno del Ricordo e quelli immediatamente successivi si siano trasfigurati in un’arena di combattimento per la politica. Ancora una volta, lo scopo non dichiarato, ma perseguito è stato quello di piegare la storia, e ciò che accadde al confine orientale dell’Italia dal 1945 alla stipula dei trattati di Pace, ai convincimenti e ai fini di parte (la destra nostalgica), con la tendenza a un revisionismo che fa accapponare la pelle nella ricerca spasmodica di assolvere i complici dei criminali che vollero la guerra. Complici non meno criminali dei loro maestri per la pervicacia con cui, preoccupati di rimanere a bocca asciutta e esclusi dal banchetto della vittoria che aleggiava attorno a Hitler, seppero sacrificare tante vite umane. Una vergogna. Vergogna non una, ma due, tre volte, se rileggiamo la storia in chiave militare dell’Asse Roma-Berlino-Tokio, seguendo la traiettoria di una guerra d’aggressione nazista, fascista e dell’imperialismo nipponico, in ordine cronologico d’intervento (1° settembre 1939, 10 giugno 1940, 7 dicembre 1941), che si diparte in più direzioni: l’occupazione di intere nazioni, l’oppressione con un regime di polizia di quelle popolazioni (portate alla fame) che finiva spesso davanti al plotone d’esecuzione e il rastrellamento delle persone di origine ebraica da destinare ai campi di concentramento per la soluzione finale propugnata dai criminali nazisti e dai loro complici, italiani inclusi. Un’altra vergogna. Così come diventa una terza vergogna la storia spezzettata, resa schiava dallo schematismo con cui si pretende di raccontare la complessità. Quello in cui eccellono gli affabulatori da telering, che disvelano le loro verità a tavolino per un pubblico comodamente seduto in poltrona, in maggioranza ignaro di che cosa siano stati realmente quei tempi lontani e foschi. Reclutati come specialisti in nullologia, cercano di abbattere l’interlocutore con i luoghi comuni, laddove c’è fame di ricerca storica. Tendenzialmente i nullogici hanno toni e posture aggressivi, tuttavia si godono l’impunità da codice penale perché tutelati dalla democrazia conquistata proprio da coloro che sono oggetto dell’aggressione. Un controsenso. Ma che rimane però il profilo migliore della democrazia, se non l’altro per l’opportunità che ci offre, osservando i violenti, di non aver dubbi sui pericoli che potremmo correre se ne fossimo privati, della democrazia ovviamente, non dei violenti. Ma riprendiamo dal Giorno del Ricordo, istituito con la legge 92 del 30 marzo 2004, che si prefiggeva ben altre finalità, oltre a quella della pacificazione con le popolazioni che subirono l’occupazione dell’esercito italiano che nei Balcani ebbe mano pesante. In primis, l’obiettivo del 10 febbraio è apparso chiaro fin dalla sua istituzione: quello di ricucire una ferita interna ancora aperta, l’oblio in cui era precipitato per decenni l’esodo di centinaia di migliaia di connazionali dalle terre istriane e dalmate. Un esodo che era la diretta conseguenza della violenza giorno dopo giorno, mese dopo mese, sempre più simile ad una pulizia etnica contro gli italiani, progressivamente scacciati da terre da secoli italiane. Un’operazione eseguita alla luce del sole dalle truppe del maresciallo Tito, l’eroe della Resistenza che aveva trasformato le bande partigiane slave in un esercito di liberazione nazionale contro l’occupante nazifascista. Un esercito nazionale: titolo che gli era stato riconosciuto dalle forze angloamericane, con l’aperto sostegno del primo ministro britannico Winston Churchill – che già si prefigurava una barriera a est per contenere Stalin e l’Armata rossa – da cui aveva ricevuto l’assoluta libertà d’azione sui territori liberati. La stessa libertà d’azione che il nostro presidente del consiglio Alcide De Gasperi andò a reclamare il 10 febbraio del 1947, ai trattati di Pace che si firmavano a Parigi, per conservare i territori del sud Tirolo, i cui abitanti parlavano tedesco e si sentivano profondamente austriaci. Fu anche in virtù di quegli ammiccamenti e coperture internazionali, in cui ogni Paese chiedeva di farsi scontare qualche cambiale (leggi colpe), che si generarono nefandezze di ogni tipo. Tra quelle anche le foibe, pozzi tipici del territorio carsico, che divennero le tombe di migliaia di italiani, alcuni collaborazionisti della Wehrmacht tedesca e schierati con la Repubblica di Salò, ma non per questo meritevoli di morte, per di più arbitraria. Una fine terribile che dev’essere spiegata, insieme con l’esodo, in tutte le sue pieghe (e piaghe) storiche, ma non spiegazzata dalla propaganda politica. Ma che cosa fu dunque il confine orientale italiano? La Porta di Vetro proverà a raccontarlo con un reportage a puntate di Marco Travaglini.

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