Il vulcano africano chiamato Somalia
di Germana Tappero Merlo |
Le cronache dalla Somalia riportano dell’ennesimo attentato, questa volta con un’autobomba nei pressi di Mogadiscio, con almeno 20 morti e un trentina di feriti. Dai report dell’European Union Training Mission Somalia (EUTMS), a cui partecipa anche l’Italia con un contingente di nostri militari, la situazione interna a quel paese è talmente degenerata negli ultimi mesi da far temere il riaccendersi, ancora una volta, di una guerra fratricida. Eppure questo paese sembrava voler seguire la via di elezioni democratiche, rimandate lo scorso anno per via dell’emergenza sanitaria, e ora in forse, non solo per la data ma anche per le modalità di voto. Gli elementi di incertezza sono tanti, e non portano a nulla di buono.
Lo scontro tra federalisti e centralisti
La Repubblica Federale di Somalia, com’è definita ufficialmente, è da decenni divisa fra un governo centrale (GFS), così debole da esercitare una limitata autorità solo attorno alla capitale Mogadiscio, e una serie di entità locali, autoproclamati Stati, alla ricerca di una loro semi-autonomia dal governo centrale. A questi si aggiunge una buona dose di clan, potenti nei loro ruoli di rappresentanza politica, ma fortemente rivali ed armati. A tutto ciò si aggiunge, manco a dirlo, l’ingerenza di governi stranieri. Fra i somali c’è chi rivendica l’unione dell’intero Paese (Puntland, nel nord-est); chi la separazione dall’attuale GFS (Somaliland, nord-ovest); chi si contende territori di confine fra queste regioni; chi vorrebbe una Somalia rigidamente musulmana (il qaedista al-Shabaab e l’ISIS); chi si oppone a questa involuzione radicale (le milizie armate dell’Ahlu Sunna Waljaa, ASWJ e quelle del Roskamboni) e chi, appunto, sfruttando queste divisioni, tenta di porre sotto il proprio controllo questa parte di Africa, tra le più strategiche al mondo per posizione geografica e pare, ora, anche per ricchezza di petrolio e gas. Ricchezze identificate e non ancora esplorate, come sta accadendo in Tanzania e in Mozambico, e ora anche in Somalia, tanto da ambire al 7° posto come produttore mondiale. Fanno gola a potenze regionali, come il proprio posizionamento nel Corno d’Africa. E qui l’elenco è lungo, dalla Turchia, ai Paesi del Golfo, Iran sino all’Egitto, per citare i più attivi.
Da oltre un decennio, alcune forze politiche interne alla Somalia stanno lavorando per un modello di elezioni democratiche che sia “una persona, un voto”, il cui obiettivo è sostituire la tradizionale condivisione del potere basata sui clan. La strada sembra però ancora lunga e tortuosa se, come previsto, alle prossime elezioni saranno i 14.000 delegati dei clan a scegliere ancora i legislatori dei due rami del Parlamento che, a loro volta, eleggeranno il nuovo Presidente. Dal punto di vista interno, fra le forze politiche che sostengono l’attuale presidente Mohamed Abdullahi Mohamed ‘Farmajo’, sembra infatti prevalere il modello – già dell’era di Siyaad Barre – di centralizzazione aggressiva dell’autorità, che si basa sulla convinzione che la nazione, nella sua attuale anarchia e incertezza, richieda un governo centrale forte, con tutte le istituzioni sotto il controllo di un presidente assoluto e potente. Tale approccio, tuttavia, sta minando il federalismo e riducendo lo spazio democratico, perché i sostenitori di questa presidenza “imperiale” sembrano decisi a smantellare qualsiasi processo che rafforzi e migliori il sistema federale somalo.
L’interessato sostegno del presidente etiopico a Farmajo
Una mano in tal senso arriva dall’Etiopia del presidente Abiy: anch’egli persegue un’agenda centralista e, nel timore che il modello somalo di autonomia federale diventi ispirazione per i suoi oppositori separatisti interni, sta pienamente sostenendo l’approccio di Farmajo. La partecipazione alla neonata Horn of Africa Cooperation con Etiopia ed Eritrea per una collaborazione per lo più economica (anche se ci si interroga quale possa essere, dato il carattere di quei commerci, ossia locali, informali e per lo più illegali), fornisce a Farmajo un nuovo fulcro regionale per la sua agenda centralizzante. Non da meno la Turchia, che da un decennio investe miliardi di dollari in Somalia per progetti infrastrutturali, nel 2017 ha anche aperto a Mogadiscio il suo più grande campo di addestramento militare all’estero, contribuendo alla formazione delle forze regolari somale. Sono proprio queste ultime che Farmajo prevede di utilizzare per sconfiggere i federalisti, per spingere verso la centralizzazione del potere. Da qui gli scontri fra le milizie armate dell’opposizione e le forze di sicurezza governative, in particolare durante le manifestazioni pubbliche, com’è accaduto a metà febbraio, con addirittura il lancio di razzi verso l’aeroporto internazionale Aden Adde, e relativa chiusura, con isolamento dell’intero Paese.
I ‘federalisti’, quindi, e non i terroristi, sono considerati dal potere centrale i principali nemici contro cui impiegare le proprie forze armate: ecco come Mogadiscio, secondo alcuni osservatori, sta dando una nuova prospettiva di vita ai terroristi qaedisti di Al-Shabaab e alle piccole ma determinate frange dell’ISIS, ovviamente entrambi in competizione, in particolare nel Puntland. Non è un caso che i loro attentati (riusciti o falliti) abbiano subito un aumento vertiginoso dall’inizio di questo nuovo anno, così come le incursioni nelle carceri somale da parte di al-Shabaab, per liberare criminali e terroristi e ottenere ‘facile’ manovalanza. Costoro, infatti, vanno ad aggiungersi a ragazzi, per lo più minorenni, sottratti in tal modo alla povertà di molti villaggi. Un robusto vigore che rafforza il terrore di stampo qaedista.
La strategia Usa da Trump a Biden.
L’azione diplomatica internazionale per una maggior sicurezza e stabilità della Somalia, di fronte a tale complessità, sembra rallentare se non bloccarsi del tutto. A tentare di indebolire le milizie jihadiste somale con attacchi mirati era rimasta la guerra con i droni fortemente sostenuta da Trump, il presidente statunitense che più ne ha fatto ricorso, registrando 276 attacchi nel corso del suo mandato contro i 60 in quelli di Obama. Biden ha ora limitato il loro impiego ai campi di battaglia “regolari” US, come Afghanistan e Siria, togliendo ai suoi comandi militari dell’AFRICOM quell’autonomia decisionale, propria invece dell’era Trump, di colpire con i droni obiettivi terroristici considerati minaccia diretta per la sicurezza americana. Rimangono in zona le forze US (650-800 unità di forze speciali con compiti addestrativi e di contrasto al terrorismo), presenti ancora nel 2020 in Somalia ma ritirate da Trump, e riposizionate ora nei Paesi vicini, in modo da supportarli nella sicurezza dei propri confini dal rischio, ormai quasi consuetudine, di incursioni violente del somalo al-Shabaab.
Le cifre del dramma somalo: rifugiati, sfollati e 850 mila bambini denutriti
I risultati di questa instabilità politica e di grave insicurezza (a cui si sono aggiunte pandemia e carestia) si riassumono nelle cifre delle sofferenze fra i civili: oltre a migliaia di morti per scontri e terrorismo, sono circa un milione i rifugiati che hanno cercato riparo nei Paesi vicini, con ciò che ne consegue anche per questi ultimi; inoltre, sono più di due milioni e mezzo gli sfollati interni; mentre 850 mila bambini sotto i 5 anni necessitano di supporto nutrizionale.
C’è molto altro da aggiungere sulla Somalia, su questo fra il più ‘fragile’ degli Stati africani, la sua guerra lunga decenni e che pare infinita; sulle sue genti e la loro diaspora, anche in Europa e soprattutto verso l’Italia, il Paese più richiesto da costoro, a chi li accoglie sulle nostre coste come migranti illegali, per vivere o soggiornare, per poi proseguire altrove. E anche in quell’altrove, per i somali segnati da decenni di violenza, privazione e dolore, ci sono altre battaglie. Ecco perché ciò che avviene laggiù ci appartiene. Non conoscerlo o, peggio, volerlo ignorare è farci solo del male.
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