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Il taccuino politico della settimana: un bilancio sociale della pandemia

STEEME COMUNICATION snc

a cura di Claudio Artusi |

Con la pandemia stiamo vedendo la luce in fondo al tunnel e, con prudenza, possiamo iniziare a guardare al dopo. Gli interventi fatti in questi quindici mesi sono stati di due categorie, entrambe emergenziali: una tesa a ridurre la virulenza della Covid, l’altra a mitigare i sacrifici che la popolazione in vario modo si trovava a fare (i vari decreti “ristori”). In termini di medio/lungo periodo l’intervento fondamentale è il Recovery plan con enorme allocazione di risorse, lungo elenco di obiettivi ed ambizioso programma di riforme. Ma vi sono domande che dobbiamo porci e, di conseguenza, fare una seria riflessione: quale paese ci lascia la pandemia? quale comunità emerge dalle ceneri? quale carta di valori si andrà affermando? Non possiamo eludere una considerazione: i danni della Covid non si sono abbattuti in modo uniforme su tutti! Circa due terzi della popolazione (dipendenti pubblici, dipendenti di medio/grandi imprese, pensionati) non hanno subito decurtazioni dai loro stipendi, e, poiché hanno avuto minor occasione di consumare e spendere, hanno visto i loro risparmi crescere. L’altro terzo ha sentito sulle proprie spalle in modo eterogeneo tutto il peso della crisi (da limature ai propri guadagni fino a un impoverimento drammatico). Vi è dunque una prima grande frattura nel corpo socio economico procurata dalle conseguenze della crisi, frattura che andrà esaminata, capita, lenita. Vi sono poi i bambini, i ragazzi, i giovani: la loro qualità di vita è stata molto differenziata da vari fattori: il tipo di alloggio, la famiglia di provenienza, l’accesso efficace o meno alla DAD, le prospettive ed i sogni del “dopo” su come entrare nel mondo del lavoro. Va detto con chiarezza che, su questa fascia di popolazione, la pandemia non è stata per niente “democratica” e molti molti giovani, a parità di meriti e di capacità, faranno più fatica ad affermarsi di altri più fortunati. Guardiamo poi ai territori penalizzati dal “digital divide” (il 50% come superficie, il 30% come popolazione): tutti noi “primitivi digitali” abbiamo faticato con l’uso di queste dannate piattaforme, ma che ne è stato di coloro che, oltre all’handicap di alfabetizzazione informatica, hanno dovuto far fronte ad un collegamento inesistente o inaffidabile? Si fa presto a parlare di smart working ma sarebbe interessante, e va fatto, censire dove lo smart working ha funzionato e dove no. E ancora la vita familiare, che ha subito danni valoriali ed esistenziali, in relazione a molti fattori, certo non tutti determinati dal censo. Con l’attenuazione della paura del contagio, queste ed altre grandi eterogeneità nel corpo sociale del paese emergeranno in tutta la loro potenza e gli strumenti con cui guidare un paese così ferito, non possono essere solo economici, né tanto meno demagogici. Esprimo un desiderio (non una previsione) che emerga una classe dirigente (pubblica e privata) credibile ed autorevole, che sia disposta anche a pagare il prezzo della impopolarità… ricordiamoci che Winston Churchill, un gigante della storia del secolo scorso, ha perso le prime elezioni del dopoguerra, ma nessuno ricorda chi le ha vinte!

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