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Chiara Laura Riccardo ed Emanuele Davide Ruffino

Società in sofferenza: merito non sempre fa rima con successo e viceversa


di Chiara Laura Riccardo e Emanuele Davide Ruffino


Victor Hugo affermava che “il successo è una cosa piuttosto lurida, la sua falsa somiglianza col merito inganna gli uomini”. Se cerchiamo di dare una risposta al perché un calciatore di classe guadagni mille volte più di un ricercatore, di un professionista sanitario o di un insegnante, facciamo fatica a trovare una risposta. L’emergenza sanitaria da COVID-19 sembrava aver aperto scenari di dibattito per il riconoscimento e l’allineamento delle retribuzioni all’importanza del lavoro svolto, ma nulla ad oggi si è concretizzato a riguardo. Troppe sono ancora le situazioni dove i soldi guadagnati non sono la misura del contributo dato al bene comune e tante sono le storie di apparente successo senza merito, così come altrettante sono le storie di merito senza successo.


La società e i suoi valori

La cultura contemporanea ha fatto della nozione di velocità uno dei suoi fondamenti, forse il principale. La necessità di essere veloci e performanti permea ogni area della nostra vita: dalla famiglia al lavoro, dallo studio alla comunicazione e, purtroppo, anche nei rapporti umani. Tutto deve muoversi velocemente, anche il raggiungimento dei propri obiettivi di vita e di carriera. Gli interessi di molti, della nuova generazione, sono per lo più orientati a ciò che può essere raggiunto nell’immediato (e, a volte, senza fatica) all’interno di un contesto sociale caratterizzato dalla frammentazione e dall’individualismo. La “generazione del tutto e subito” tende così ad eludere ragionamenti ed impegni di lunga durata aspirando ad un successo “immediato” che però, come la storia e l’esperienza ci insegnano, non esiste. La troppa “fretta” toglie spazio alla possibilità di riflettere, di sperimentare e fare esperienza, componenti preziose della maturazione e adultizzazione di ogni singolo individuo. Se guardiamo ai social e ai media in generale, osserviamo come la ricerca di rapida visibilità e autoaffermazione siano molto diffuse e spesso non vadano di pari passo con il merito e la qualità.

Secondo la teoria dei bisogni, sviluppata dallo psicologo David McClelland, i comportamenti umani sono riconducibili a tre bisogni fondamentali: il successo, il potere e l’affiliazione. Ed ecco dunque che il “successo”, aldilà del merito, diviene uno degli obiettivi da raggiungere a tutti i costi per affermare il proprio esserci nel mondo, un mondo dove le nuove generazioni sono però intrappolate nella precarietà che non riguarda più soltanto il lavoro, ma anche le relazioni sociali e tutti i gli ambiti dove si vive guardando agli altri come strumenti o ostacoli.


Incremento dei suicidi tra i giovani

L’ISTAT riporta che, ogni anno in Italia, si contano circa 4.000 suicidi, il 13% dei quali fra gli under 34 che nella maggioranza dei casi risultano essere studenti universitari. Questi giovani arrivano a togliersi la vita scusandosi per i propri fallimenti universitari e professionali in un contesto familiare dove, spesso, fino a quel giorno, hanno sempre comunicato di aver sostenuto con successo gli esami e di aver consegnato la tesi in attesa di sapere la data di laurea. Ma la realtà è ben diversa e, in questa condizione di menzogna, a cui si associano vissuti di vergogna e di inadeguatezza non si riesce più a scorgere una possibile via d’uscita avvolti da quel sentirsi “non abbastanza” all’interno di uno scenario dove o si è dei fenomeni o si è dei falliti. Perché oggi, nella nostra società è difficile accettare un fallimento e tenersi lontani da quella performatività sempre crescente e spesso fonte di stress e malessere.

Il Rettore dell’Università Cattolica, Franco Anelli, parlando del ruolo che le Università in Italia hanno nella formazione dei giovani e nel sostenerli nella realizzazione dei loro progetti professionali afferma che “in Italia l’università è stata per molti anni un ascensore sociale, incidendo in una società scarsamente istruita”, riflettendo sul fatto che “l’ascensore non sta sospeso nel vuoto, bensì sta dentro un edificio e se l’edificio cambia, se le strutture si torcono, se vacillano, l’ascensore si ferma. Per comprendere se i nostri sistemi formativi siano ancora capaci di promuovere lo sviluppo della persona occorre capire come si sta modificando l’edificio, cosa sta accadendo alla nostra società, non solo quali sono le conoscenze utili ma quali sono i meccanismi di relazione tra individui e istituzioni”.

In Europa è attivo il “Meritometro”, l’indicatore che misura il livello di meritocrazia di un Paese, e si basa su 7 pilastri: libertà, pari opportunità, qualità del sistema educativo, attrattività per i talenti, regole, trasparenza e mobilità sociale. Se guardiamo all’Italia, purtroppo la “meritocrazia” se la passa male: il nostro Paese si conferma maglia nera con più di dieci punti di distacco dalla Spagna (penultima in classifica) e oltre 43 dalla Finlandia, prima in classifica.

Insoddisfazione, burnout, depressione e stigma sono solo alcuni degli elementi che caratterizzano il mondo dei lavoratori italiani (che, tra l’altro risultano essere tra i meno felici d’Europa), un mondo dove spesso chi ha merito e competenze non viene premiato e dove il successo non è correlato al vero merito. Ci stupirà leggere che, secondo l’indagine “BCW Age of Values 2023”, condotta dalla società di comunicazione BCW su 36.000 persone in 30 Paesi, la Generazione Z (i nati tra il 1997 e il 2012), non considera più la carriera, il successo ed i soldi come obiettivi da perseguire, bensì dà spazio al “vivere bene”, in netta controtendenza rispetto alla generazione precedente. Dunque si fa strada la ricerca di stabilità e buone relazioni in “una generazione, tuttavia, che allo stesso tempo vuole anche essere padrona della propria vita e che è più determinata delle generazioni precedenti a viverla bene”.

Oltre l'affermazione personale

Una volta la maggioranza dei giovani sognava di cambiare il mondo e poi, per dirla alla Venditti, non si salvava ed “entrava in banca pure lui”. Oggi i fattori si stanno invertendo: da giovani si rincorre il successo senza farsi troppi scrupoli per poi accorgersi che rinunciare a valori e dignità, non sempre appaga. I tempi cambiano più velocemente delle scale di valori: quello che oggi può sembrare il massimo livello di soddisfazione possibile, nel volgere di poco, diventa insignificante, anche per chi ha faticato molto per raggiungerlo. Qualsiasi forma di successo non è più appagante, ma non raggiungerlo diventa causa di frustrazione, ed è proprio questa inconsistenza dei valori che la nostra società propone.

Diventa persino difficile capire ciò che può essere considerato un valore o condizionamento collettivo, espressione di campagne pubblicitarie volte a creare bisogni indotti e diritti fittizi. I mass media e i social ci propongono costantemente modelli di consumo che finiscono per condizionare significativamente i nostri stili di vita, fino al punto di diventare modelli da seguire. Una parte sempre più consistente del reddito di un cittadino occidentale viene assorbito in spese che sono ormai considerate indispensabili (e quindi non più oggetto di scelta o di libero arbitrio: dai cellulari, agli status simbol imposti dagli ambienti che si vuole frequentare). Ed, in effetti, ci si deve porre il problema se il successo che oggi si persegue risponde ad un intimo volere individuale o semplicemente è la sommatoria di un’infinità di condizionamenti che la nostra società crea per indirizzare i nostri consumi e i nostri comportamenti.

Rifiutare certi modelli di successo è anche una ribellione a certi stereotipi imposti che, anche se giusti, vengono rifiutati semplicemente perché non scelti. Ma la velocità dei cambiamenti e la difficoltà di seguirli ed assimilarli, fa sembrare tutto vecchio e tutto inutile ed allora riprendersi il nostro tempo per dedicarsi a ciò che realmente piace, suona come un atto rivoluzionario… e forse lo è.

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