Gli “scatti” di Camille Lepage: immagini di una vocazione coraggiosa
di Tiziana Bonomo |
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Lo scorso anno sono stati uccisi 50 giornalisti nel mondo, e non soltanto in zone di combattimento. È il dato che emerge dal rapporto annuale di Reporters sans Frontières (Rsf). In dieci anni, dal 2011 a oggi, Rsf ha registrato 937 vittime. Nel decennio 2006-2016 i giornalisti uccisi per raccontare, fotografare, filmare ciò che vedevano sono stati 780, di cui almeno 500 caduti nelle aree di guerra del pianeta. Camille Lepage, fotogiornalista francese, appartiene a quel gruppo di coraggiosi. La sua morte risale 12 maggio del 2014, in Repubblica Centrafricana. Aveva 26 anni. Era nel “cuore” del Continente nero per documentare una crudele guerra civile che continua tuttora e che non risparmia nessuno, bambini, donne, anziani, tra violenze, omicidi, stupri. La storia della fotogiornalista francese è raccontata nel film “Camille”, proiettato nell’ambito del Festival internazionale di Fotogiornalismo che si è chiuso il 26 giugno scorso.
Non sono una fotogiornalista e non conosco le “regole” professionali. Ma il film “Camille” di Boris Lojkine, nella sua semplice grammatica cinematografica, mi sembra sia riuscito quanto meno a far intuire ciò che regola il mondo del fotogiornalismo. Inoltre la figura di Camille Lepage mi ha ispirato per recuperare il significato di un festival come quello di Padova diretto da Riccardo Bononi che sostiene: «L’idea che sta alla base della nascita di IMP Festival è la convinzione che il fotogiornalismo oggi sia il più rapido accesso alle storie e ai dibattiti internazionali in grado di connettere i quattro angoli del Mondo, una modalità per rendere ciascuno partecipe e consapevole del proprio ruolo fondamentale anche nelle questioni più controverse e geograficamente lontane.» Guardando il film e guardando le immagini a Padova – il festival si è concluso il 27 giugno – ho naturalmente colto linguaggi diversi ma soprattutto ho ascoltato modi di “fare reportage” differenti. Martino Periti su Il Bo Live si è chiesto che cosa spinga una persona a rischiare la vita per raccontare una guerra. E si è risposto che la psicologia degli inviati al fronte, giornalisti e fotografi che si mettono in gioco per testimoniare tragedie invisibili, è complessa e a volte indecifrabile. Una indecifrabilità che nel film diventa naturalezza nel seguire la propria vocazione: è ciò che fa Camille, fotografa in Africa, terra di cui è innamorata, alla quale sembra ancor più naturale partecipare attivamente al conflitto che insanguina la Repubblica Centrafricana.