Giorno del Ricordo: uniti nel dialogo della memoria
di Marco Travaglini|
Sono quasi passati vent’anni dall’emanazione della legge che ha istituito il giorno del Ricordo, collocando di fatto la data del 10 febbraio nel calendario civile della Repubblica (la legge n.92 del 30 marzo 2004) ma la memoria delle foibe e dell’esodo delle popolazioni istriane, fiumane, dalmate e giuliane all’indomani del trattato di Pace di Parigi che assegnava quelle terre alla Jugoslavia è ancora al centro di forti discussioni e polemiche. Già in passato si è sostenuto la necessità di storicizzare con onestà intellettuale i passaggi cruciali di una storia complessa e non facilmente decifrabile al primo impatto come quella della frontiera adriatica nel corso del ‘900. Tuttavia, gli echi di una narrazione troppo a lungo mancata nella memoria collettiva e nella storia italiana di questa dolorosissima vicenda e di una strumentalizzazione delle celebrazioni si sono fatti sentire con immutato impeto. Forse occorrerebbe riascoltare le parole di uno storico autorevole come Guido Crainz e “avere negli occhi, nella mente e nel cuore le intense immagini del luglio del 2020, con il comune omaggio dei presidenti italiano e sloveno – Sergio Mattarella e Borut Pahor – a luoghi simbolo dei dolori e delle lacerazioni di quello che fu il nostro confine orientale”.
Fu un gesto storico. I due presidenti delle Repubbliche italiana e slovena, mano nella mano, sulle alture carsiche di Trieste davanti alla foiba di Basovizza. Un segno potente, spontaneo, oltre i formalismi del protocollo. Poco prima avevano partecipato alla cerimonia di restituzione alla comunità slovena di Trieste della Narodni Dom, la casa della cultura incendiata nel 1920 dai fascisti. “Oggi abbiamo allineato tutte le stelle”, disse Pahor. Due luoghi simbolo dello scontro dei nazionalismi violenti che hanno insanguinato quelle terre e reso feroce e rancorosa per troppo tempo la memoria. Sono storie avviatesi con l’esasperarsi dei nazionalismi di fine Ottocento, divampate nell’esplosione della Prima guerra mondiale, continuate con l’avvento di un “fascismo di confine” aggressivo e oltranzista che promosse l’ italianizzazione forzata delle popolazioni slovene e croate perseguita dal regime, i drammi della guerra che vide anche la feroce occupazione nazista e fascista della Jugoslavia e un dopoguerra segnato dalla volontà di Tito di annettere alla Jugoslavia l’intera Venezia Giulia.
Come ricorda la storiografia più obiettiva tra le vittime delle foibe – di cui ancora Basovizza, come monumento nazionale, è il simbolo – non vi furono solo fascisti o solo italiani, ma anche i presunti “nemici del popolo”; vale a dire chiunque si opponesse o potesse opporsi al progetto egemonico di Tito, compresi esponenti dell’antifascismo. Ha ragione l’Anpi quando ricorda che “la violenza esercitata dall’esercito jugoslavo, su uomini e donne inermi, fece seguito alla violenza esercitata dal fascismo in quella parte d’Europa. Non c’è alcuna giustificazione né per la prima né per la seconda perché ogni violenza va condannata senza appello”. In quella vicenda drammatica si trovano condensati i contrasti nazionali intrecciati a conflitti sociali, l’oppressione totalitaria, guerre di aggressione, lo scatenarsi delle persecuzioni, violenze di massa, spostamenti forzati di popolazione, conflittualità tra l’est e l’ovest lungo una delle frontiere della guerra fredda.
Le foibe e l’esodo di oltre 250mila italiani dall’Istria, da Fiume e dalla Dalmazia, da terre dove nel corso dei secoli si sono incrociate lingue, nazionalità e culture, hanno rappresentato e rappresentano una ferita sulla quale, nel nostro Paese, era stata stesa una cortina di silenzio. La lunga notte del dopoguerra, segnata dai confini reali e ideologici figli della guerra fredda ha impedito per troppo tempo una lettura onesta e sincera di quelle vicende. Da tempo gli storici indagano su queste vicende e deciso è stato l’impegno su questo versante da parte del Comitato Resistenza e Costituzione del Consiglio regionale insieme all’Istoreto e all’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia di Torino e del Piemonte. Il Piemonte fu la realtà italiana con più arrivi di quei profughi dopo il Veneto e il Friuli Venezia Giulia.
Ritornando all’incontro e alla visita di quei luoghi da parte dei due presidenti come dar torto a Guido Crainz quando afferma che “quella corona comune deposta a Basovizza ai simboli di opposte memorie non esprimeva solo il doveroso rispetto per il “dolore degli altri”. Voleva dire qualcosa di molto più profondo: non ci sono vittime degli uni e degli altri, sono tutte vittime nostre”. L’importanza del Giorno del ricordo si svela quindi di gran lunga superiore agli usi strumentali e talora indecenti che qualcuno a destra ha pur tentato e tenta. Utilizzare a fini politici il dolore di chi patì quelle violenze e ricostruirne la trama con spirito di parte, omettendo di raccontare la storia nella sua interezza, è un’operazione di mistificazione di una enorme tragedia che impedisce il vero dialogo delle memorie. La ragione per cui si guarda all’altro come a un fratello e non come a un nemico.
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