Giacomo Matteotti, anatomia di un omicidio politico
Aggiornamento: 9 giu
di Piera Egidi Bouchard
Martedì 10 giugno 1924 Giacomo Matteotti, punto di riferimento del partito socialista, tra le 16 e le 16,30 uscì dalla sua abitazione romana. Era iscritto a intervenire alla Camera sul bilancio dello Stato, su cui aveva già accusato il governo Mussolini di falso, perché non c’era l’annunciato pareggio, bensì un disavanzo di 2034 milioni. Il suo dunque era un discorso molto atteso, sui cui esiti gli storici hanno poi molto discusso. Sul Lungotevere Arnaldo da Brescia era ferma una limousine scura, da cui scese un individuo che afferrò il deputato che si difese, ma fu subito circondato da altri quattro uomini che lo sollevarono di peso, nonostante si divincolasse con tutte le sue forze (riuscì anche a rompere con un calcio il vetro anteriore dell'auto). Ma una pugnalata al petto ne stroncò la reazione. Così l’auto partì a tutta velocità, con il clacson suonato a distesa, verso la campagna romana.
Dopo averlo inutilmente atteso tutta la notte, la mattina del giorno successivo la moglie Velia avvertì i compagni di partito più vicini. E mentre Turati scriveva a Kuliscioff “dato il carattere e le consuetudini di Matteotti, si esclude da tutti noi che possa trattarsi di un’avventura donnesca”, nelle stesse ore il presidente del Consiglio Benito Mussolini, che era stato già informato dell’uccisione “ironizzava ad alta voce a Palazzo Chigi, storpiando il nome del Partito socialista unitario: ’A Montecitorio i pussisti sono inquieti perché non trovano il loro Matteotti. Sarà andato a puttane...’ ”.
Matteotti, sarà ritrovato, in stato di avanzata decomposizione, il 16 agosto, a una ventina di chilometri dalla capitale. Ma già nel marzo del '21, l’odiatissimo oppositore socialista Matteotti era stato rapito da una squadraccia fascista a Castelguglielmo e sottoposto a violenze e sevizie, con l’ingiunzione di non tornare in Polesine, pena la morte. E per anni fu minacciato e controllato in tutti i suoi movimenti e le sua azioni. Le origini di tanto livore erano nell’impegno sociale fin dalla giovinezza nelle sue terre, il Polesine, contrassegnate da una straordinaria povertà, analfabetismo, malattie come la pellagra e la tubercolosi. Di famiglia agiata (“il miliardario” lo chiamavano gli oppositori, ed era anche spesso non amato per la sua provenienza di classe da alcuni dirigenti socialisti) avrebbe potuto fare vita comoda, ma scelse di stare “dalla parte degli ultimi”, e già a 15 anni diventò socialista, riformista, intransigentemente pacifista, eletto in moltissimi enti locali, dedicandosi in tutta la sua attività negli anni alle condizioni delle masse popolari, contro “lo schiavismo degli agrari” (in una sorta di umanesimo marxista e di cristianesimo rivoluzionario) – come avvocato, sindacalista, organizzatore delle leghe-amatissimo dal popolo e odiatissimo dai possidenti, che lo consideravano un traditore della loro classe. Ne fa fede l’episodio del gennaio ’21, in cui un gruppo di agrari, seduti al tavolino di un bar in piazza, a Ferrara, invitarono pubblicamente i fascisti a “uccidere Matteotti”.
Il libro di Federico Fornaro
“Il discorso del 30 maggio 1924 – scrive lo storico e parlamentare Federico Fornaro- a cui si deve una minuziosa e appassionante ricostruzione della vita, del suo indefesso impegno e dei suoi scritti e discorsi, (perché – nota - “la figura del martire” ha perlopiù oscurato le sue opere) - e il duro scambio verbale a Montecitorio tra Matteotti e Mussolini, di alcuni giorni dopo, rappresentarono dunque la punta dell’iceberg di un clima di livore e di rancore in cui maturarono le condizioni dell’assassinio del segretario del Psu. Come in altri casi di omicidi politici, mentre la giustizia ha fatto il suo corso contro gli esecutori materiali, la ‘pistola fumante’ relativa al mandante non è stata trovata e allo storico non resta che mettere insieme i tasselli di un mosaico di indizi e documenti”.
In un’aula tumultuante, il 30 maggio, infatti, Matteotti aveva pronunciato quello che sarebbe stato il suo ultimo discorso, continuamente interrotto da proteste della maggioranza, nel quale dimostrò che le elezioni svoltesi il 6 aprile non erano valide, perché condizionato da minacce e soprusi degli squadristi, presenti anche nei seggi e dalla diffusa impossibilità dei candidati dell’opposizione di tenere i comizi sia in pubblico che in luoghi privati.
Si scatenò quello che “La Stampa” definì “un uragano infernale”, con una colluttazione violenta tra i parlamentari e la sospensione della seduta, proseguita poi in assenza dei deputati delle opposizioni che avevano abbandonato l’aula in segno di protesta. All’uscita dall’aula, al compagno di partito, il friulano Cosattini che si congratulava commosso per il suo discorso, Matteotti rispose sorridendo con la famosa frase: “Ora preparatevi a fare la mia commemorazione.”
Il 27 giugno, le opposizioni commemorarono Matteotti in una sala della Camera – mentre in tutta Italia milioni di lavoratrici e lavoratori si astennero simbolicamente dal lavoro per dieci minuti - e fu dato l’annuncio ufficiale che non avrebbero più partecipato ai lavori parlamentari “fino a quando non fosse fatta giustizia“: 130 deputati si costituirono in una assemblea ribattezzata ‘Aventino’, nel ricordo ‘della secessione della plebe romana sul ‘Colle Sacro’ guidata da Menenio Agrippa.
La storia drammatica dei mesi successivi sfocerà nel famoso “discorso della dittatura” del 3 gennaio 1925 , quando Mussolini si assunse “La responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto” – pur negando poi di essere implicato nell’omicidio Matteotti, e concludendo: “Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere.”
Il mito dell'antifascista per eccellenza
Fornaro ricostruisce attentamente anche i diversi giudizi politici su Matteotti dopo la sua morte, notando anche un’incomprensione del suo impegno dovuta ai diversi orientamenti, in particolare quelli dei comunisti nei confronti dei riformisti: ”E’ noto il severo giudizio critico di Gramsci, che lo definì – nell’agosto del 1924- ‘un pellegrino del nulla’, inteso come un combattente sfortunato’, ma tenace fino al sacrificio di sé’ di un’idea ‘che non può condurre i suoi credenti e militanti ad altro che a un inutile circolo vizioso di lotte, di agitazioni, di sacrifici senza risultato e senza vie d’uscita.” E invece, tuttora – nota Fornaro - Matteotti incarna, anche all’estero, il mito dell’antifascista per eccellenza, che paga la sua coerenza morale con la vita: ne fanno fede i 3.900 riferimenti toponomastici nelle nostre città, forse il personaggio a cui sono state intitolate più vie e piazze in Italia.
Chi invece comprese profondamente la figura di Matteotti, fino a quasi identificarsi con lui, fu un altro “intransigente utopista“, che poco tempo dopo pagò con la vita: Piero Gobetti. In un saggio commosso del 1924, lo definì “il volontario della morte”, ricostruendone la formazione, l’opera e la testimonianza, a cominciare dal suo discorso del 2 maggio 1915 contro la guerra, in cui “parlava contro la violenza con un linguaggio da cristiano”, “non era disfattismo, ma un atto di fede ideale”: parlava “sicuro come un apostolo” [2].
E aggiungeva: “bisogna saper vedere in Matteotti giurista, economista, amministratore, uomo pratico, queste pregiudiziali di disperata utopia, di assoluto idealismo” e bisogna saper distinguere “il fondo solido di virtù conservatrici e protestanti in cui nacque il suo sovversivismo, e nacque aristocratico per la solitudine.” Un aristocratico di stile - nota Gobetti – non di famiglia, e nella sua formazione in solitudine rivedeva certamente anche la propria. “Sapeva far rispettare la sua solitudine. Si sapeva soltanto che era rigidissimo, sobrio, rettilineo, senza vizi: e così si rispettava la sua severità verso gli altri, il suo fanatismo protestante contro chiunque avesse avuto una debolezza colpevole. Questa sicurezza non era sostenuta da una credenza religiosa, ma solo da una fede di stampo austero e pessimistico, nei valori di individualismo e libertà.”
E conclude: “Egli rimane come l’uomo che sapeva dare l’esempio.(..) Perché la generazione che noi dobbiamo creare è proprio questa, dei volontari della morte per ridare al proletariato la libertà perduta".
Note
[1] Federico Fornaro, Giacomo Matteotti - l’Italia migliore, Bollati Boringhieri, Torino, 2024
[2] cit. in Paolo di Paolo (a cura di), Piero Gobetti- Resistere al fascismo, Garzanti, Milano, 2023
Comments