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Stefano Marengo

Europa in un vicolo cieco: la subalternità agli Usa rischia di accelerarne la crisi

Aggiornamento: 9 ott

di Stefano Marengo


Se l’escalation in Medio Oriente dovesse condurre a un macro conflitto regionale, le conseguenze sarebbero catastrofiche per le popolazioni locali, ma sarebbero anche drammatiche per la tenuta economica e sociale europea. La guerra, infatti, colpirebbe inevitabilmente il settore degli idrocarburi, provocando un aumento significativo del costo dell’energia, che andrebbe a pesare tanto sul consumo privato quanto, e soprattutto, sulla produzione e la competitività industriale dei singoli paesi continentali e dell’Europa nel suo complesso.

A differenza degli Stati Uniti, che ormai da tempo hanno raggiunto la piena autosufficienza energetica, il Vecchio Continente vive in uno stato di dipendenza cronica da approvvigionamenti esterni, cosa che lo espone ad ogni minima fluttuazione dei mercati. Si tratta di un’evidenza che abbiamo potuto verificare direttamente con lo scoppio della guerra in Ucraina, quando le sanzioni imposte al Cremlino hanno condotto al calo delle esportazioni e, a monte, alla drastica riduzione delle importazioni di carbone, gas e petrolio russi, che in precedenza soddisfacevano rispettivamente il 45, il 38 e il 28 percento del fabbisogno continentale. Ne è seguita una crescita esponenziale dell’inflazione, sostenuta anche da fenomeni speculativi, che ha intaccato il potere d’acquisto dei singoli cittadini e le capacità industriali europee.


In affanno l'economia tedesca

Il caso paradigmatico è quello della Germania, che dopo un anno di recessione e uno di stagnazione vede ancora lontane, e comunque contenute, le possibilità di una ripresa. Il che è tanto più preoccupante se si considera che buona parte delle realtà manifatturiere europee è oggi inserita nelle catene di fornitura dell’industria tedesca. In altri termini, una crisi che colpisce la Germania, come nel caso del blocco delle importazioni energetiche dalla Russia, si riverbera ad effetto domino su tutti gli altri paesi, incidendo sulle loro capacità produttive e, quindi, sulla creazione di ricchezza e sull’occupazione.

Da ciò si capisce piuttosto bene come una seconda ondata di crisi, questa volta con epicentro in Medio Oriente, sarebbe se non esiziale, comunque severa per tutta l’Europa. Sebbene l’UE oggi importi direttamente dai paesi di quella regione meno del 15% del gas e del petrolio di cui ha bisogno (e si tratta di una cifra che rimane comunque significativa), a pesare sarebbero soprattutto le conseguenze indirette di un eventuale conflitto. I paesi del Golfo Persico rimangono infatti tra i principali produttori ed esportatori di idrocarburi su scala globale, e ciò comporta che ogni fattore che ne ostacoli o addirittura ne comprometta l’estrazione, la trasformazione e la commercializzazione è destinato a tradursi in un aumento dei prezzi sulla stessa scala. In pratica, per quanto ci riguarda, se un conflitto regionale dovesse davvero scoppiare, l’Europa si troverebbe a dover fronteggiare, per la seconda volta in un biennio, una nuova ondata inflattiva (e speculativa), con il rischio, per lo meno per quanto concerne la sua capacità industriale, di scivolare sempre più verso i margini dell’economia-mondo contemporanea. Tale fenomeno inflattivo, inoltre, scaricandosi su potere d’acquisto e occupazione, scatenerebbe una crisi sociale di dimensioni difficilmente prevedibili e dagli esiti ancora più difficilmente governabili.


Lo scontro frontale con la Russia

Ad aggravare ulteriormente il quadro si aggiunge il fatto che tutti questi eventi sembrano inaugurare per l’Europa una crisi non congiunturale, ma strutturale. Se la Russia appare ormai sempre più decisa a spostare in Asia il proprio baricentro economico, come testimoniano anche le recenti dichiarazioni di Xi Jinping, che si è detto pronto ad espandere la cooperazione con Mosca, nessuno può oggi azzardare previsioni attendibili sul Medio Oriente, se non che un conflitto regionale avrebbe conseguenze di lunga durata sull’economia globale.

Ciò che deve essere chiaro è che la situazione in cui ci troviamo non deriva da imperscrutabili cicli economici, ma è interamente dovuta a precise scelte politiche con le quali l’Europa e i singoli paesi europei hanno assecondato le strategie geopolitiche degli Stati Uniti. Se prendiamo ancora una volta il caso della Russia e adottiamo una chiave di lettura che non tiene in considerazione soltanto l’ultimo biennio di guerra guerreggiata, è evidente come l’Europa, negli ultimi due decenni, abbia commesso errori fatali nel non prendere sul serio la denuncia del Cremlino sull’allargamento a est della Nato e sulla necessità di una nuova architettura condivisa - lo si sottolinea - di difesa continentale. Senza troppe perifrasi, ci si è accodati a Washington e alle sue politiche di potenza su un percorso che avrebbe portato allo scontro frontale con Mosca. Ma se gli americani, al sicuro al di là dell’Atlantico ed energeticamente autosufficienti, possono forse permettersi tale scontro, di certo non si può dire altrettanto per gli europei, che devono gioco forza convivere e possibilmente collaborare con il gigante russo alle porte di casa. Pensare che le cose possano andare altrimenti – magari alimentando la fantasia dell’implosione della Russia – non è soltanto illusorio, ma pericoloso. Al di là della propaganda, l'autocrazia di Putin ha puntelli che non sono certamente logori come quelli che resero vulnerabile il sistema sovietico, nonostante la glasnost e la perestroika di Gorbaciov.

Un discorso per molti versi analogo vale per il Medio Oriente. Anche in questa occasione l’Europa si è dimostrata subalterna agli orientamenti statunitensi, sia nel sostegno incondizionato garantito a Israele e ai suoi desideri di escalation sia, più in generale, nella miope adesione a quello che assomiglia sempre più a un programma di destabilizzazione della regione. Chi ha assistito allo scoppio delle guerre in Afghanistan (2001) e Iraq (2003) ricorderà che proprio questo era il cuore della dottrina neocon sotto la presidenza di George Bush junior. Ciò che invece molti ignorano è che tale dottrina non è venuta meno con il fallimento di quelle avventure militari, ma rimane viva, pur sotto nuove forme, in diversi circoli di potere statunitensi, tanto tra i repubblicani quanto tra i democratici.


Macron fuori dal coro

L’attuale segretario di stato Antony Blinken, insieme ad altri membri dell’amministrazione Biden, ne è un noto esponente. È in quest’ottica che diventa un po’ più comprensibile l’atteggiamento tenuto da Washington negli ultimi mesi; un atteggiamento che appare orientato non solo a sostenere Israele come testa di ponte occidentale in Medio Oriente, ma anche a restituire agli USA, dopo il disastro della guerra irachena, una sorta di golden share sul futuro della regione e a ostacolare, in prospettiva, il progetto cinese della nuova via della seta terrestre che, superata l’Asia centrale, dovrebbe interessare l’Iran, l’Iraq, la Siria e la Turchia. Di nuovo, tuttavia, occorre prendere atto che l’ennesimo conflitto mediorientale farebbe forse gli interessi degli USA (il dubitativo è d’obbligo), mentre l’Europa, per ovvie ragioni economiche e geografiche, non avrebbe che da rimetterci.

È piuttosto significativo che i primi segnali d’allarme rispetto al decorso dell’escalation in Medio Oriente siano arrivati dalla Francia, ossia il paese europeo storicamente più autonomo da Washington. Nei giorni scorsi, infatti, il presidente Macron non ha soltanto posto l’esigenza di fermare le forniture di armamenti a Israele e di addivenire a un accordo per il cessate il fuoco, ma ha anche sottolineato come gli interessi dell’Europa tendano a non collimare con quelli degli Stati Uniti.

In sintesi potremmo dire che gli USA, seguendo una logica neoimperialista, sono oggi sempre più ossessionati dall’esigenza di riaffermare il proprio dominio globale unipolare di fronte alla crescita della Cina e, più in generale, del sud del mondo; l’Europa, al contrario, avrebbe ogni interesse nel promuovere un nuovo multipolarismo, ossia un sistema-mondo non più incardinato su un’unica superpotenza, ma sul confronto politico paritario e il mutuo beneficio economico con una pluralità di centri di potere, dalla Cina all’India, dalla Russia ai paesi mediorientali, dall’America latina agli stessi Stati Uniti.


L'invadenza finanziaria dei fondi di investimento

Rimane però il fatto che, al netto delle parole di Macron, la consapevolezza dei reali interessi europei e l’elaborazione di politiche conseguenti faticano a farsi strada. Ciò è dovuto solo in parte alla scarsa qualità della nostra classe politica, che pure è un problema reale. A impedire il riorientamento strategico dell’Europa ci sono, a monte, delle formidabili resistenze da parte di élites finanziarie che guardano a Washington per la tutela dei propri interessi e che hanno il potere di indirizzare le decisioni politiche tanto a livello comunitario quanto a livello dei singoli stati. In questo non c’è davvero nulla di arcano. Infatti, a seguito della finanziarizzazione degli ultimi decenni, l’intera economia europea, salvo sparute eccezioni, è stata sempre più penetrata da fondi di investimento il cui cuore pulsante è situato al di là dell’Atlantico e che, come nel caso dei colossi BlackRock, State Street e Vanguard (le big three dell’asset management che gestiscono capitali dal valore complessivo di circa 25mila miliardi di dollari) pianificano le loro strategie a stretto contatto con le amministrazioni USA. Ne viene che le stesse élites finanziarie europee sono legate a doppio filo agli Stati Uniti e operano con tutte le loro capacità affinché l’Europa rimanga allineata a Washington.

Alla luce di tutto ciò è piuttosto difficile essere ottimisti per il futuro, a maggior ragione se, come oggi, la sinistra, ossia lo schieramento che più di tutti dovrebbe proporre modelli socioeconomici alternativi, è pressoché scomparsa da quasi tutto il continente (e questo è anche il motivo per il quale una nuova ondata di crisi potrebbe condurre a un’ulteriore affermazione dell’estrema destra). Benché difficile, tuttavia, il riorientamento dell’Europa rimane nondimeno possibile. Se avvenisse, potremmo non solo perseguire i nostri interessi reali, ma contribuire ad estinguere focolai di tensione e conflitti che lacerano il mondo. Anche in questo senso molto particolare, a valle di ogni considerazione morale, gli sguardi muti di decine di migliaia di morti in Ucraina e in Palestina sono altrettanti rimproveri all’inerzia europea.

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