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Denatalità e consumismo: il Pil non misura ciò che merita di essere vissuto

Serena Pellegrino

Aggiornamento: 9 dic 2023

di Serena Pellegrino


Quante volte abbiamo udito, anche in forme politicamente trasversali, la dichiarazione che suona come una sentenza: allarme demografico, denatalità, futuro a rischio! Preoccupazione legittima. La domanda successiva, altrettanto legittima, sorge però spontanea, quanto si apprende che la Terra è popolata da 8 miliardi di persone. Allora, per quale ragione ci si dovrebbe preoccupare per il calo delle nascite? Siamo certi che sia un'autentica priorità, come sostiene con passionale foga la presidente del Consiglio Giorgia Meloni?

Negli anni, ho provato a riflettere sull'interrogativo che circola soprattutto nei Paesi ricchi, partendo dal dato oggettivo che una persona che nasce nel Primo Mondo consuma nel corso della vita quasi quanto 200 persone del Terzo Mondo. Questa valutazione porta alla conclusione, che può anche dare luogo, e non lo nascondo, all'idea semplicistica che chi vellica nei cittadini la paura dell'inverno demografico, teme che manchino consumatori, cioè acquirenti delle merci prodotte. Ma prodotte da chi?, dal momento che ormai quasi tutta la produzione, dagli anni ‘90 del Novecento in avanti, è stata quasi tutta delocalizzata fuori dall'Occidente?

L'economista Serge Latouche, classe 1940, professore emerito di Scienze economiche all'Università di Parigi XI e all'Institut d'études du developpement économique et social della capitale francese, nonché uno dei principali promotori della decrescita, ha sostenuto che si sta producendo e consumando troppo. "Dobbiamo fermarci!", è stato il suo monito. E con lui, altri, convinti dei pericoli del consumismo, hanno rafforzato quelle visioni sotto gli attacchi di chi li accusava di voler far precipitare l'umanità all'età della pietra.

Critiche ingannevoli, se si osserva con occhio di parte - tutt'altro che neutrale, ma fieramente schierato, cioè dalla parte dei più deboli, esposti e fragili - i pericoli che oggi corre l'umanità, schiacciata tra guerre definite ipocritamente "locali", ma che provocano rivolgimenti su scala planetaria a causa di carestie, violenze e successive migrazioni, e l'incremento geometrico delle spese militari dei paesi dell'Occidente, che genera una caduta progressiva del Welfare e della qualità della vita per frazioni sempre più ampie delle popolazioni.

Il che ci porta a riconsiderare la riflessione sulla decrescita materiale e sui bisogni rispetto alle risorse della Terra nell'interesse dell'intera umanità e non di un ristretto circolo di dominanti. Ciò che oggi si impone è un severo reiquilibrio tra cose importanti e utili e cose futili, queste ultime determinanti nel concorrere a produrre, prima ancora che il calo delle nascita, la caduta del pensiero o meglio della capacità di pensare.

In sintesi: è necessaria una svolta riflessiva per la ricerca, sia personale, sia collettiva, di una qualità della vita sganciata dall’ossessione per la crescita e dalla corsa verso la produzione, il possesso e il consumo di merci. Domandarsi che cosa produrre, dove produrre, per chi produrre, con il massimo dell'attenzione alla crescita demografica dei continenti del Terzo Mondo, non è uno ozioso e stucchevole esercizio accademico, fors'anche viziato da passatismo, ma è oggi più che mai una via d'uscita, anzi la via d'uscita per scongiurare la catastrofe ambientale effetto dei cambiamenti climatici di origine antropica, cioè stimolati dall'uomo, e nuove guerre per la sopravvivenza.

Nel 1968, Robert Kennedy, fratello del presidente americano assassinato a Dallas nel novembre del 1963 e quell'anno candidato alla Casa Bianca, affermò in un discorso diventato una sorta di testamento politico dopo la sua morte violenta, che “il Pil misura tutto fuorché quello che rende la vita meritevole di essere vissuta”. In quale limbo è finita quell'importante dichiarazione? Perché non si prova a ridare smalto al concetto di "vita meritevole di essere vissuta", anche per combattere l'indifferenza con la quale assistiamo da Gaza alla Siria e all'Ucraina, per citare i conflitti maggiori, alla vita che in ogni secondo è "appesa a un filo"?

Anche a costo di apparire apologetici, ognuno di noi, nessuno escluso, dovrebbe impegnarsi al raggiungimento del BES - Benessere equo e sostenibile - per influenzare le politiche economiche di ogni paese e di ogni governo attraverso la produzione normativa, affinché la legislazione di bilancio tenga conto della proiezione di indicatori per la qualità della vita. Ma quale governo si è speso in modo adeguato? Forse, quello italiano? Ho forti dubbi.

Dovremmo quindi provare a prendere in considerazione i più complessi “cruscotti” (dashboard) che misurano il benessere collettivo, piuttosto che continuare ad utilizzare il Prodotto interno lordo come indicatore del successo di una comunità, indicatore buono solo per rimanere ancorati e schiavi di una politica e di un mondo novecentesco.

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