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Dalle stalle alle strade, esplode la rabbia degli agricoltori

di Matteo Cotza ed Emanuele Davide Ruffino


Gli allevatori sono poco inclini a manifestare perché, come il buon Giovannini Guareschi faceva dire a Peppone, il sindaco comunista amico-nemico di don Camillo, una catena di montaggio si può fermare, ma le mucche da mungere non permettono lunghi periodi di protesta. Nonostante queste limitazioni, in tutta Europa si leva da giorni un grido di protesta per condizioni imprenditoriali sempre più compromesse. Dalla seconda metà del Novecento, per numero di addetti, per percentuale sul PIL e per rappresentanza politica, il mondo agricolo ha progressivamente perso il ruolo cruciale mantenuto per secoli.

Se fosse solo un problema di incentivi, si potrebbe pensare ad una normale rivendicazione di categoria che nei Paesi occidentali è ormai la principale chiave del successo economico (ben più importante della capacità manageriale). Se si considera la porzione di territorio gestito dagli agricoltori e l’impatto sulla qualità della vita di tutti noi, ci si rende conto di come il problema sia più complesso, e come gli errori, soprattutto delle politiche comunitarie, gravino sul sistema.

 

C’era una volta…

Negli anni del secondo dopoguerra, la Coldiretti, parte essenziale del sistema di governo intercategoriale che faceva capo alla Democrazia Cristiana, influenzava significativamente le scelte politiche attraverso un confronto serrato con le altre componenti sociali, di cui la politica sapeva intrecciare una sintesi. Poi l’avvento della grande industria ha spostato gli asset del potere, in Italia come in Europa, verso altre componenti, privando la categoria, e più in generale tutto il ceto medio, di adeguata rappresentanza, fino al punto di poter far pesare solo su questa categoria molti problemi di carattere generale.

Gli agricoltori devono risolvere l’impatto dell’inquinamento (come se fossero gli unici ad inquinare), accettare la concorrenza di Paesi terzi (cui si è aggiunta, per ragioni di opportunità politica, anche l’effetto Ucraina sul prezzo dei cereali e del pollame), gestire il problema del dissesto idrogeologico che, specie nelle aree montagnose e collinari, può provocare gravi disastri (amplificati in caso di abbandono o di un loro uso non corretto), ed ovviamente sopportare il peso burocratico di un apparato, sia comunitario, sia nazionale che, anche per giustificare la sua esistenza, continua a produrre infinità di norme, codicilli e regolamenti, spesso in contraddizione tra di loro, generando così una pletora di lunghi contenziosi. 

A ciò si è aggiunto una dinamica dei prezzi particolarmente svantaggiosa, dove gli agricoltori, punto iniziale (e indispensabile) della filiera, faticano a trasferire sugli altri attori gli effetti inflattivi, diversamente da quanto riescono invece a fare altri player del settore. Accade così che il prezzo pagato all’agricoltore viene centuplicato prima di arrivare al dettaglio (divario non sempre spiegabile).

 

I problemi attuali

In questo scenario diventa difficile condurre un’impresa agricola che, da decenni, fatica a trovare manodopera locale, nonostante i livelli di disoccupazione e ha dovuto ricorre a maestranze straniere che spesso hanno dimostrato, vuoi anche per tradizioni culturali (come l’attenzione degli indiani verso le mucche e, in genere, verso tutti gli animali), un grande livello d’integrazione, rendendo la loro presenza sempre più indispensabile. La protesta degli agricoltori fatica ad esplicitarsi, in quanto se non si recano al lavoro per un giorno, praticamente nessuno se ne accorge, ma poi il giorno successivo devono recuperare il ritardo, sperando che le condizioni metereologiche lo permettano. Per farsi sentire devono ricorre a qualche cosa di eclatante e per questo, con i loro potenti mezzi, tendono ad occupare parte di importanti arterie stradali in modo da “creare notizia” (in Piemonte è toccato alla tangenziale di Alessandria).

La protesta si articola in modo diverso nei vari stati dell’Unione, ma tutti contestano la non remunerabilità dei fattori produttivi impiegati (compreso il lavoro degli stessi agricoltori); una farraginosità di regolamentazione, oltre che un eccessivo costo, della transizione ambientale (il Green deal, che per gli agricoltori, anziché un’opportunità, sta diventando un incubo); una politica dei dazi che favorisce i Paesi in via di sviluppo (dove forse sarebbe opportuno rivedere le modalità di controllo: e su questo aspetto il problema più che degli agricoltori, è dei consumatori), ma anche paesi altamente evoluti che, operando con meno vincoli come il Canada, riescono a produrre a minor costo (non perché più bravi, ma perché operano in condizioni più favorevoli e con meno burocrazia).

E poi ci sono i “dettagli” come l’aumento del gasolio agricolo o, più esattamente, la riduzione delle agevolazioni fiscali che hanno scatenato la protesta in Germania (ma il problema di un fisco eccessivo, non risolvibile solo con le agevolazioni, è un problema molto diffuso, in Europa, come in Italia) e il ritardo nella distribuzione dei contributi comunitari, attentissima però a pagare chi si occupa della ormai mitica curvatura delle banane, o altri problemi poco rilevanti che non hanno certo contribuito a rafforzare l’immagine delle istituzioni e, oggi che i problemi si sono accentuati, è conseguenziale che il rancore cresca.

Ora l’Europa, che per anni ha significativamente condizionato le politiche agricole impegnando parte consistente delle proprie risorse, sembra disponibile a rivedere i provvedimenti, forse presi un troppo frettolosamente, sotto pressione di istanze demagogiche e senza valutare compitamente gli effetti, diretti ed indiretti, che potevano generare. Mettere a riposo il 4% dei terreni e l’obbligo di rotazione delle culture (pena la non corresponsione degli incentivi) e ridurre i fertilizzanti del 20%, sono misure che volevano rispondere all’obbligo etico di tutela della natura: obiettivo che deve essere costantemente essere tenuto in considerazione, ma il cui prezzo non può essere scaricato su una sola categoria, sperando che questa non reagisca solo perché è abituata al duro lavoro.

 

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