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Dal Pcd’I al Pci: il “compromesso storico” di Enrico Berlinguer

di Stefano Marengo|


Un secolo fa si registrava a Livorno la grande e storica lacerazione all’interno del movimento socialista italiano. In coda al XVII Congresso del Partito socialista nasceva il Pcd’I, il partito comunista d’Italia. Cento anni dopo, ripercorriamo le vicende di un partito che ha attraversato da protagonista il Novecento. Quarta puntata: anni Settanta, la strategia del “compromesso storico” nella visione del segretario generale Enrico Berlinguer.

Nell’autunno del 1973 Enrico Berlinguer, succeduto a Luigi Longo e a Palmiro Togliatti, consegnava alle pagine di Rinascita una serie di gravi riflessioni sul futuro della democrazia alla luce del colpo di stato avvenuto l’11 settembre in Cile. Per il segretario comunista, il rovesciamento del presidente Salvador Allende e la feroce dittatura militare instaurata dal generale Augusto Pinochet, col determinante supporto degli Stati Uniti e della Cia, evidenziavano la precarietà delle conquiste politiche, civili e sociali ottenute nel dopoguerra in una logica di rigida divisione del mondo tra il campo occidentale e la sfera d’influenza sovietica. La reazione si dimostrava sempre in agguato, rendendo tutt’altro che certo il cammino delle forze progressiste. Dal golpe cileno, secondo Berlinguer, si doveva trarre un insegnamento generale, valido anche per l’Italia. Esso infatti chiariva con estrema drammaticità che neppure un’eventuale, netta vittoria elettorale della sinistra poteva assicurare, da sola, il progresso dei diritti e della giustizia: «sarebbe del tutto illusorio – scrisse Berlinguer – pensare che, anche se i partiti e le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51 per cento dei voti e della rappresentanza parlamentare (cosa che segnerebbe, di per sé, un grande passo in avanti nei rapporti di forza tra i partiti in Italia), questo fatto garantirebbe la sopravvivenza e l’opera di un governo che fosse l’espressione di tale 51 per cento». Fu sulla scorta di queste considerazioni che all’interno del PCI prese corpo la strategia del “compromesso storico”, prolungamento, per alcuni versi, della politica togliattiana. Nei suoi tratti essenziali, l’idea di Berlinguer era che, nel mondo segnato dalla Guerra fredda e in un paese, l’Italia, che attraversava una complessa crisi economica e sociale, democrazia e riforme potessero essere garantite soltanto dalla collaborazione delle grandi forze politiche di massa. L’appello era rivolto a tutti i partiti dell’arco costituzionale, ma in particolare al mondo cattolico e alla Democrazia Cristiana come sua espressione politica. Contrariamente a quanto sostenuto da alcuni interpreti, l’obiettivo di Berlinguer non fu mai quello di dare vita a un’alleanza strutturale tra PCI e DC. Egli, al contrario, riteneva che i due partiti, che insieme erano rappresentativi del 66 per cento del corpo elettorale (elezioni del 7 maggio 1972) dovessero raggiungere un accordo per dare piena attuazione, attraverso le riforme, alla Costituzione repubblicana. Inoltre, questo percorso comune avrebbe dovuto condurre al riconoscimento e alla legittimazione reciproca di comunisti e democristiani, rompendo l’inerzia della contrapposizione ideologica della guerra fredda e ponendo le basi, in prospettiva, per una possibile alternanza di governo. La strategia di Berlinguer, irrobustita da sempre più marcate prese di distanza da Mosca e dalle posizioni ideologiche del Pcus, divenne tema centrale del dibattito politico nazionale nella seconda metà degli anni Settanta. Nel 1976 il PCI raggiunse un consenso record del 34,4% alle elezioni politiche, con 12,6 milioni di voti e un incremento di oltre il 7% rispetto alle consultazioni precedenti. La distanza dalla DC si era ridotta a poco più di 4 punti percentuali. Il governo che si formò successivamente, un monocolore democristiano presieduto da Giulio Andreotti, fu il primo di una serie di esecutivi che poterono operare solo grazie alla “non sfiducia” del PCI. In altri termini, il partito comunista si era ormai imposto come una forza di cui occorreva necessariamente tenere conto per il governo del paese. Fu in questo scenario che Berlinguer trovò nel presidente della DC, Aldo Moro, il suo principale interlocutore politico.Per quanto sia difficile formulare un giudizio definitivo sulla reale strategia del leader democristiano, appare indubbio che la precarietà del quadro parlamentare e l’approfondirsi della crisi italiana avessero indotto Moro ad aprire un canale di dialogo con il segretario del PCI rispetto alla necessità di riforme condivise e di una reciproca legittimazione politica. E fu proprio sul filo di tale dialogo che, al principio del 1978, l’avvicinamento tra comunisti e cattolici giunse a tradursi in ipotesi di effettiva collaborazione di governo. Ma questo nuovo corso, come si sa, finì soffocato nel sangue prima ancora di diventare realtà. Il rapimento e l’assassinio di Moro da parte delle BR sconvolsero le dinamiche politiche del paese. Gli eventi che seguirono, nonostante la “solidarietà nazionale”, condussero sia il PCI che la DC ad archiviare definitivamente la stagione del compromesso storico. Per Berlinguer e il partito comunista la morte di Moro fu un punto di non ritorno, l’epilogo drammatico di un decennio di profonde paure e grandi speranze e, insieme, l’inizio di un capitolo del tutto nuovo che richiedeva l’elaborazione di una strategia inedita. Ma per questo si dovranno attendere gli anni Ottanta e la proposta dell’“alternativa democratica”. (4/ Continua)

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