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Dal festival di Pesaro nuova luce su Tornatore, l'uomo delle stelle

Aggiornamento: 1 lug 2023

di Sergio Toffetti*

www.pesarofilmfest.it

Si è chiusa a Pesaro il 24 giugno la 59° Mostra Internazionale del Nuovo Cinema. Nato nel 1965 grazie a Lino Miccichè e Bruno Torri, il Festival di Pesaro è stato per decenni l’“alternativa politica e culturale” a Venezia, proponendo da un lato tutte le “nouvelles vagues” che esplodevano sugli schermi a cavallo del ’68. A Pesaro si incontrano Godard e Bertolucci, Rossellini e Tarkovskij, Zavattini e Jean-Marie Straub. E ancora i cineasti latinoamericani, dal brasiliano Glauber Rocha agli argentini peronisti Solanas e Getino; i giapponesi Nagisa Oshima, Shoei Imamura e, il più estremo di tutti, Koji Wakamatsu; i dissidenti dell’Est socialista: il polacco Skolimowsky, il ceco Milos Forman. E in parallelo si organizzano convegni critici sul linguaggio cinematografico dove, ad esempio, Roland Barthes discute con Pasolini. Negli anni ’70 a Pesaro si vedono i film delle dittature spagnole e portoghesi al tramonto, da Victor Erice a Manoel de Oliveira che mostra fuori dal Portogallo i suoi film praticamente per la prima volta. Poi, verranno le grandi retrospettive sulle cinematografie nazionali, dall’Unione Sovietica ai paesi dell’estremo oriente. la Cina, l’India. Grande attenzione il Festival dedica al giovane cinema italiano e soprattutto al cinema sperimentale, mettendo a confronto il New American Cinema con artisti come Piero Bargellini, Franco Angeli, Grifi e Baruchello.


Un maestro del cinema italiano

Accanto al Nuovo Cinema, Pesaro rilancia gli studi storici sul cinema italiano, organizzando grandi retrospettive dove vedere, spesso per la prima volta, i film italiani degli anni Trenta e Quaranta (insomma… “telefoni bianchi e camicie nere”…), il Neorealismo, i melodrammi e le commedie degli anni ’50, e poi, man mano verso il nuovo millennio, con gli omaggi ai cineasti italiani. Oggi Pesaro ha una posizione meno centrale nel panorama internazionale, perché anche i grandi festival, da Venezia a Cannes, hanno imparato a guardare non soltanto alle grandi produzioni, ma al cinema emergente; sono nate nuove realtà come Torino Film Festival che per anni “ha fatto concorrenza” proponendo opere prime di giovani autori. Pesaro tuttavia mantiene un forte ruolo di innovazione, basti pensare che oggi propone un concorso aperto a tutti i formati, cioè non soltanto al cinema pensato per le sale o per le piattaforme, ma a opere girate per il web o con i cellulari. Resta invece come punto fermo l’omaggio annuale a un maestro del cinema italiano, accompagnato da un convegno e da un volume (edito tradizionalmente da Marsilio) e curato dal direttore della Mostra Pedro Armocida e da Emiliano Morreale, con saggi di critici e storici del cinema come Giulio Sangiorgio, Marianna Cappi, Roberto Calabretto, Gianni Canova, Gaetano Savatteri, Alberto Anile. Ormai, a dire il vero, sono sempre più rari i festival che accompagnano le proiezioni con un lavoro critico, perché tutti concentrati più sulla “rassegna stampa immediata” che sull’impatto culturale.

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Pioggia di premi e riserve dei critici

La stessa proposta di Giuseppe Tornatore arriva come dovuta, ma al tempo stesso eccentrica. Si tratta infatti di un cineasta mai troppo amato dalla critica, nonostante il Premio speciale della giuria a Cannes, il BAFTA, il Golden Globe e soprattutto l’Oscar 1990 per Nuovo cinema Paradiso (girato in realtà nel 1988). In un periodo in cui il dispositivo di diffusone del cinema in sala è entrato in crisi, è interessante rivedere i film di un cineasta che al cinema ci è arrivato proprio dalla frequentazione fin da bambino delle sale cinematografiche. Se, guardandosi allo specchio, Fellini probabilmente si immaginava come il direttore di un circo, Rossellini come un antropologo, Visconti come un grande romanziere alla Thomas Mann, Antonioni come un autore cinematografico, Tornatore si vede sempre come il primo spettatore dei suoi film. Al cinema infatti non ci arriva dalla critica o dalla gavetta attraverso l’apprendistato di assistente, aiuto, ecc. I suoi primi film infatti, sono quelli che vede prima dai precari sedili dei cinema di Bagheria, poi dalla cabina del proiezionista che inizia a frequentare già quasi da bambino.

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Nuovo cinema Paradiso arriva infatti all’epoca in cui la sala cinematografica perde la sua centralità comunitaria.

E in questo, è avvicinabile a film come L’ultimo spettacolo (The Last Picture Show, 1971) di Peter Bogdanovich, o Nel corso del tempo (Im lauf der Zeit, 1976) di Wim Wenders o ancora Les sièges de l’Alcazar (1989) di Luc Moullet. E acquista oggi acquista oggi una dimensione di filologia archeologica tesa a preservare dall’oblio del tempo un’esperienza universalmente praticata nel XX secolo, eppure a rischio di sparizione e già radicalmente modificata nei suoi tratti originari.

Andare al cinema non come esperienza culturale, ma come atto abituale di un’antropologia quotidiana, entrando magari a film già cominciato – Mario Monicelli mi diceva che un film si vedeva meglio dal secondo tempo; uscendo a fumare negli intervalli; senza vergogna di farsi scappare commenti voce alta con gli amici. Tutti e quattro i film citati rimpiangono il tempo in cui la sala cinematografica è al centro di una vita comunitaria: nella frontiera al tramonto della sconfinata provincia americana rimpianta da Sam il Leone in Bogdanovich; come mito già in crisi inseguito dai due antieroi wendersiani King of the Road e Kamikazen; nell’alcova cinefila del Quartiere Latino dove scoppia l’amore controverso tra “Cahiers du Cinèma” e “Positif”. Fino ovviamente al piccolo Totò che, solo, si gode il cinema in diretta, come esperienza emozionale, rinviando le sovrastrutture intellettuali al finale che lo vede regista affermato. Il cinema fin quasi dall’inizio coltiva il vezzo di prefigurare la propria fine, profetizzata da Jean-Luc Godard: “Il cinema durerà quanto la vita di un uomo, tra 80 e 120 anni”.


"Sono un autodidatta"

Andare al cinema. Una situazione, col passare del tempo, sempre più precaria da conservare, come molte occorrenze della cultura di massa, sempre a rischio di rimpasto nel ciclo e riciclo produttivo: già Oreste del Buono diceva che non c’è rarità bibliografica più difficile a reperire di un Giallo Mondadori due settimane dopo l’uscita in edicola. Andare al cinema dunque, esperienza oggi paradossalmente difficile da restituire nella forma primigenia – con pellicola e proiettore, magari a carboncino – e non con la luce fredda e i pixel che friggono sugli sfondi dell’immagine dei tecnologici DCP usati oggi per la proiezione. In questa prospettiva, Nuovo Cinema Paradiso dimostra oggi una consapevolezza museografica tanto più evidente di fronte a un’evoluzione della museologia del cinema che esce dalla semplice esposizione di “oggetti collaterali” (che di fatto rischia di rendere i musei del cinema troppo concentrati su “pennelli e cornici”, lasciando esclusa per necessità l’opera d’arte in sé e per sé), e tenta di riprodurre l’esperienza spettatoriale, avvicinandosi alla “messa in mostra” dei film e – come nelle più avanzate scelte archeologiche – ricostruendo nel percorso allestitivo il “sito” cui erano prioritariamente destinati. Del resto, già Maria Adriana Prolo ed Henri Langlois concludevano il loro percorso museale con una sala da proiezione. Giuseppe Tornatore dunque, arriva al cinema con la consapevolezza che dietro le spalle ha quasi un secolo di storie raccontate. E con questa lunga storia di quella che è stata una delle più importanti cinematografie del mondo, si misura con gli occhi del cuore e non con quelli della mente: “Sono un autodidatta. La mia formazione cinematografica nasce dall’illimitato consumo di film in sale programmate come capitava: un giorno Maciste, il giorno dopo Bergman, quello seguente Rita Pavone, poi Buñuel, Franco e Ciccio, Fellini, film hollywoodiani, ma poteva pure spuntare un Glauber Rocha, che nessuno sapeva chi fosse, ma andavamo a vederlo ugualmente. Alla mia epoca, noi vedevamo davvero tutto”. Un “tutto” che tradotto nei suoi film diventa la celeberrima sequenza finale dei “baci mai dati” di Nuovo Cinema Paradiso.

L’uomo delle stelle (1995) – uno straordinario Sergio Castellitto nei panni di Joe Morelli, imbroglione che si fa pagare per fare dei provini per lanciare nel cinema nuovi volti, salvo che, per risparmiare, nella macchina da presa non carica neppure la pellicola - è ovviamente centrale in questa ricostruzione del dispositivo del cinema. Tornatore mette in evidenza l’ambiguità di una magia mai completamente afferrabile. Il cinema è ontologicamente finto tanto da riuscire ad ammaliare anche solo con l’esibizione di una cinepresa che gira a vuoto. Ma – e ironicamente Tornatore ne affida la rivelazione a un maresciallo dei carabinieri traduttore della Divina Commedia in siciliano con ambizioni attoriali – è anche ontologicamente vero, e i poveri illusi con l’ambizione di “sostituire al proprio sguardo un mondo che meglio si accorda ai loro desideri” – come diceva André Bazin, proprio davanti alla macchina da presa danno corpo ai loro sogni, guardano di fronte le loro illusioni, chi spera di arricchirsi, chi di darsi all’arte e chi, come il barbiere interpretato da Leo Gullotta, di poter vivere con ritrovato orgoglio la propria condizione di “arruso”. Il genio della lampada di cui parla Orson Welles è più forte dell’inganno, e per un attimo lascia passare dentro la macchina da presa la verità delle persone, anche se si è risparmiato sulla pellicola che avrebbe dovuto impressionarla per sempre.


I passaggi salienti della carriera

Di cinema – e in generale di immagini si nutrono molti altri personaggi dei film di Tornatore. Renato, il giovanissimo protagonista che in Malena (2000) sogna di conquistare Monica Bellucci impersonando i protagonisti di mille avventure sullo schermo, da John Wayne in Ombre Rosse all’Amedeo Nazzari che strappa la camicia da notte a Clara Calamai svelandone il seno in La cena delle beffe di Blasetti del 1942. In Baaria (2009) il protagonista incontra Alberto Lattuada che sta girando in Sicilia Il mafioso con Alberto Sordi – ma, come in L’uomo delle stelle – oltre alla storia del cinema entrano nell’immagine anche drammi e speranze della storia reale, con l’occupazione delle terra nella Sicilia del dopoguerra e la strage di Portella della Ginestra fatta dal bandito Salvatore Giuliano per fermare un corteo di operai e contadini il Primo Maggio del 1947. Tornatore si confronta con la storia del cinema italiano anche in modo molto più diretto: dalla prima serie TV su Scrittori siciliani e il cinema, ai documentari su Francesco Rosi, Riccardo Freda, Goffredo Lombardo, fino Ennio (2021), affettuoso omaggio a Ennio Morricone, l’interlocutore più costante di tutti i suoi film, forse l’unico per cui Tornatore fa eccezione a un’autosufficienza creativa divenuta parte della sua leggenda autoriale.

E poi? Poi, nei decenni successivi, Tornatore si confronta col fatto che il cinema non è più quello che era, ha perso afflato epico, guadagnando in pervasività quotidiana., non va più in profondità ma in estensione. Le immagini – talvolta rubate – continuano a ossessionare anche il battitore d’asta Virgil Oldman (Geoffrey Rush) che racchiude in un caveau una straordinaria collezione di ritratti di donna in La migliore offerta (2013). Mentre la narrazione per immagini matura l’ambizione di rinviare il lavoro della morte, continuando il dialogo con chi resta alle nostre spalle. Come fa Jeremy Irons nei panni del raffinato professore di fisica Edward Phoerum, che in La corrispondenza (2016) programma dopo la sua scomparsa la continuazione del dialogo con la donna che amava (Olga Kurylenko/Amy Ryan).

La permanenza dell’immagine è resa possibile dalla sconnessione con la realtà fisica della pellicola, si può controllarne la creazione grazie a un dispositivo quotidiano, come un elettrodomestico a portata di mano. Ma al tempo stesso, la dematerializzazione è anche ciò che la condanna all’inaccessibilità. Non si può più guardare controluce i fotogrammi raccogliendo i tagli fuori dal Cinema Paradiso. Alla fragile trasparenza della celluloide, si è sostituita l’eternità codificata, ma ancora più precaria, dei pixel che possono disallinearsi, come i ricordi di una vita felice. Ma la magia dell’immagine resta. E come il giovane Totò si innamora davvero di Elena solo quando la vede ripresa con la sua cinepresa Super 8, l’amore di Amy per Edward porta il suggello dell’immagine registrata in DVD. Perché il cinema si vive sempre due volte. Nella vita e nel ricordo. Come l’amore.


* Storico del cinema

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