Capaci, 23 maggio 1992-2021. Dallo Stato aspettiamo ancora la verità
Un boato e una enorme striscia d’asfalto si solleva come un’onda assassina sotto la spinta di 500 chilogrammi di tritolo. Sono le 17 e 58 del 23 maggio 1992, quando la notte cala sul giudice antimafia Giovanni Falcone, sua moglie Francesca Morvillo, sugli agenti della scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro. Da ventinove anni ricordiamo con commozione l’attentato di Capaci, su quel tratto dell’autostrada A29 che collega Palermo a Mazara del Vallo, che ha segnato l’inizio dello scontro frontale perseguito dal clan dei corleonesi di Totò Riina e di Bernardo Provenzano per destabilizzare il Paese e costringere le istituzioni ad “ammorbidire” le sentenze del maxi-processo di Palermo e la pressione investigativa e di contrasto dello Stato su Cosa Nostra. Quel 23 maggio del 1992, l’assassinio di Giovanni Falcone percorse come una scossa elettrica la coscienza civica degli italiani. Ma, a differenza del sequestro del presidente della Dc Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, il Paese presentiva ciò che si stava abbattendo sui magistrati in prima linea contro la criminalità organizzata. L’avvertiva e lo sapeva riconoscere da almeno dieci anni, da quando il generale Carlo Alberto dalla Chiesa, prefetto di Palermo da due mesi, era stato ucciso da sicari di Cosa Nostra insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro la sera del 3 settembre del 1982. La cifra interpretativa dell’incombenza del dramma, immediatamente percettibile a livello collettivo, era l’isolamento. A denunciarlo, unito al senso di solitudine politica e civica che ne faceva un facile bersaglio per la mafia, era stato lo stesso dalla Chiesa in una celebre intervista rilasciata a Giorgio Bocca il 7 agosto e apparsa sul quotidiano la Repubblica tre giorni dopo. In analoga situazione si sarebbe ritrovato nel decennio successivo Giovanni Falcone, vittima del “fuoco amico” e di sbarramento operato dal Csm che gli aveva impedito di occupare il posto di Procuratore capo della Procura di Palermo. Una decisione irrazionale ed equivoca letta da Cosa Nostra come il più classico dei “pertugi” in cui infilarsi nelle maglie dello Stato per colpire al momento opportuno Giovanni Falcone. Quel momento arrivò il 23 maggio. E immediatamente dopo, il 19 luglio, la dimostrazione di strapotere di Cosa Nostra nell’uccidere i servitori dello Stato “isolati” dallo Stato fu ratificata dalla strage di via D’Amelio a Palermo, in cui fu ancora il tritolo a dilaniare i corpi di Paolo Borsellino, il magistrato e amico fraterno di Falcone, di Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina, agenti di scorta. Pochi giorni prima dell’attentato, Paolo Borsellino non si era nascosto in un intervista di sentirsi come un cadavere che cammina. Allora occorre domandarci se quell’isolamento è ancora nelle corde dello Stato per sfuggire alle proprie responsabilità. E lo diciamo a ventinove anni di distanza da quegli tragici avvenimenti; dopo ventinove anni di parole che emozionano e cerimonie su cui si riflettono sempre buone intenzioni; ma, anche, dopo ventinove anni di depistaggi e falsità che hanno impedito di individuare quel filo rosso sangue che unisce tutte le stragi di mafia al di là delle ricostruzioni giudiziarie, tutt’altro che limpide. E stamane, nell’aula bunker di Palermo, luogo simbolo del coraggio di Giovanni Falcone e della magistratura siciliana, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, un uomo che ha conosciuto nella profondità del suo animo il dolore per la malvagità di Cosa Nostra con l’omicidio del fratello Piersanti, è stato esplicito: “La mafia esiste ancora, non è stata sconfitta. È necessario tenere sempre attenzione alta e vigile da parte dello Stato”. Appunto, è l’ora dello Stato, chiamato in causa per rompere con coraggio l’omertà che continua a negare la verità, quella autentica. Avere il coraggio che non mancò a Falcone e Borsellino, e tutti coloro del lungo elenco di caduti per mano dei mafiosi.
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