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Cala il sipario sulla Mostra “I Gruppi di combattimento” dell’Esercito

di Vice|


Primo Maggio di chiusura (alle ore 19) al Mastio della Cittadella per la Mostra fotografica “1943-1945: dai gruppi di combattimento al nuovo Esercito italiano”. L’iniziativa, meritoria e non soltanto per gli appassionati di Storia Patria, è stata organizzata dall’Associazione nazionale Artiglieri d’Italia nel centenario della sua costituzione. Prima del “rompete le righe, al Mastio si è registrata ancora stamane, 30 aprile, una conferenza cui hanno partecipato lo storico Aldo Alessandro Mola e i generali Giorgio Blais e Antonio Zerrillo attorno ai personaggi di cui si è perduta memoria, come il maresciallo d’Italia Giovanni Messe, uno dei protagonisti nella ricostruzione del nostro esercito che combatté accanto agli Alleati anglo-americani fino alla liberazione del 25 aprile 1945. Una premessa: la mostra, ricca di foto inedite, recuperate dall’Archivio storico dello Stato maggiore dell’Esercito con il concorso di archivi privati, ha soprattutto il merito di aver sollevato la coltre dell’indifferenza sulla partecipazione dell’Esercito italiana dopo l’8 Settembre del 1943 alla guerra che si è combattuta nel nostro Paese. Perché quella dell’esercito ricostituito – 6 gruppi di combattimento dal 1944, circa 57 mila uomini arruolati – è stata un’altra Resistenza, meno conosciuta, meno simbolica e meno rappresentata, ma non per questo meno importante nella ricostruzione della nuova Italia.

Le ragioni di questa capitis deminutio sono da ricercarsi nella politica dei tempi e nella catarsi seguita alla catastrofe dell’8 settembre di cui furono responsabili la Monarchia e gli Alti comandi militari. Ma non lo furono le Forze armate nel loro insieme. L’Esercito scrisse pagine memorabili di Resistenza al tedesco che fino al giorno prima, verità scomoda quanto oggettiva, era nostro alleato e non un invasore. Un episodio su tutti offre lo spaccato della forza morale delle truppe italiane messe nelle condizioni di decidere e agire: la difesa dell’isola di Cefalonia, nell’Egeo, da parte della Divisione Acqui, costata il martirio di migliaia di soldati, dei sottufficiali e ufficiali, e del generale Antonio Gandin, comandante della piazza militare. Un coraggio leonino che più di altri si rivelò un ulteriore atto di accusa verso Alti Comandi Militari italiani del governo Badoglio. Accuse di imperizia, indecisione, incapacità nell’esercitare un piano di intervento e di pressione sui nuovi alleati per soccorrere la Divisione Acqui. Catastrofe e catarsi. La catastrofe dell’8 Settembre è anche figlia di una guerra d’aggressione, brutale, combattuta a fianco di un esercito, quello tedesco, che aveva come prima regola il non rispetto delle regole. Soprattutto verso popoli che la Wehrmacht, asservita per opportunismo, carrierismo, amoralità, bieco cinismo, alla cricca criminale di Hitler e all’ideologia nazista. Una nefasta contaminazione che non fece fatica a penetrare, va ricordato, anche nell’esercito italiano nei periodi di occupazione di altri Paesi. Del resto, l’esercito aveva già dato prova della sua personale visione razzista del mondo in Libia, in Etiopia, in Jugoslavia al comando di marescialli e generali, da Rodolfo Graziani e Roatta, spietati e feroci nel reprimere la Resistenza di altre popolazioni. La catarsi si spiega dunque con l’oblio della storia, con il velo che l’Italia repubblicana fece calare anche su quelle pagine coraggiose scritte dal nuovo esercito che avrebbero dovuto riempire d’orgoglio gli italiani, liberi e democratici, forti di una nuova e moderna Costituzione. Qualcuno doveva pagare per il fascismo e per la guerra. È toccato all’Esercito italiano. La Guerra Fredda, la divisione del mondo, il timore di una Terza guerra mondiale, hanno poi fatto il resto. Ora, a distanza di decenni, è giusto riprendere per mano quella storia trascurata. Lo si deve tutti coloro che seppero onorare sui campi di battaglia quella divisa.

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