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Brexit: anche l’Unione Europea ne ha tratto vantaggio…

di Stefano Rossi |


Ora che la Brexit è realtà, dopo quattro lunghi anni dal voto referendario dei cittadini britannici, si possono iniziare a fare alcune considerazioni su cosa è stata, alla prova dei fatti, la prima (e sostanzialmente unica, fatta l’eccezione della Groenlandia nel 1985) uscita di uno Stato membro dall’Unione Europea.

La prima considerazione su cui occorre riflettere è che la perdita di uno Stato membro da parte dell’UE rappresenta una seria battuta d’arresto del processo di integrazione che – almeno fino al 2016 – la costruzione europea ha seguito. La Dichiarazione Schuman del 9 maggio 1950

Si tratta di un processo basato sul modello “funzionalista”, che si è posto sempre obiettivi parziali rispetto all’obiettivo finale del processo di integrazione fissato negli anni immediatamente successivi alla fine della Seconda guerra mondiale con la Dichiarazione Schuman (9 maggio 1950, all’epoca Robert Schuman era ministro degli Esteri francesi), secondo la quale la creazione delle prime comunità rappresentava la “prima tappa della Federazione europea, […] indispensabile al mantenimento della pace”. Secondo questa prospettiva finale, ogni passo in avanti della costruzione europea ha infatti rappresentato la soluzione di una contraddizione esistente e allo stesso tempo ha posto le basi per l’emergere di una nuova contraddizione. Lo è stato, esempio noto ai più, la creazione dell’Euro, che se da un lato ha risolto la contraddizione di un mercato comune senza una moneta comune – soggetto quindi alle svalutazioni competitive, di cui il nostro Paese si è sovente giovato, che avrebbero finito per mettere in crisi la tenuta stessa del mercato comune – dall’altro lato ha aperto la nuova contraddizione di una “moneta senza Stato”, che potrà essere superata solo attraverso la creazione di un governo europeo con poteri in campo macroeconomico e fiscale. Se è vero che questo modello ha consentito numerosi avanzamenti nel processo di integrazione, lo stesso modello presenta il rischio di fasi di stallo e, come ogni costruzione incompleta, di non disporre degli strumenti necessari a fare fronte a crisi impreviste. I tentativi di travolgere Bruxelles

Infatti, il tortuoso percorso dell’integrazione europea (la spinelliana “via da percorrere” che non è “facile, né sicura, ma deve essere percorsa, e lo sarà!”) può essere descritto come una costruzione incompleta, che fino al momento del suo perfezionamento federale rappresenta debolezze, difetti e costi per gli Stati membri e per i suoi cittadini, controbilanciati da evidenti vantaggi che hanno consentito una fase di crescita, pace e benessere senza precedenti nel continente europeo. Quella stessa promessa di benessere che aveva portato il Regno Unito a tentare più volte, e infine ottenere, l’ingresso nelle Comunità Europee. Ma nel momento della maggiore crisi dell’integrazione, dopo la bocciatura della Costituzione europea e nelle acque tempestose di una crisi finanziaria globale, l’Unione ha manifestato tutte le sue debolezze e ha attraversato una crisi esistenziale che ha rischiato di travolgerla. Tra i danni della crisi europea del 2010-2016 deve certamente annoverarsi la Brexit che, almeno nelle intenzioni dei suoi promotori, doveva costituire l’inizio della fine per l’UE, primo tassello di un domino che avrebbe portato alla sua dissoluzione.

I risultati di una politica all’insegna della solidarietà

Tuttavia, a dispetto delle intenzioni dei suoi promotori, la Brexit non ha comportato la dissoluzione dell’Unione, e anzi oggi l’UE è più coesa e unita di quanto non lo apparisse nel 2016. Lo è perché, alla prova dei fatti, i governi europei non si sono divisi nella negoziazione dell’accordo di uscita e dei nuovi patti con il Regno Unito, spedendo al mittente tutti i tentativi di interlocuzioni bilaterali che il governo di Sua Maestà ha a più riprese tentato. Lo è perché i Paesi di Visegrad hanno visto spezzarsi il loro fronte comune e perché in generale gli Stati membri più critici verso una più profonda integrazione “politica” sono stati abbandonati dal principale e più influente alfiere di un’Europa “leggera”, proprio il Regno Unito. Lo è perché, complice un fortunato allineamento di leadership nazionali progressiste ed europeiste (Merkel, Macron, Conte II, Sanchez, Costa) ed europee (la nuova Commissione di Ursula Von Der Leyen e la presidenza tedesca del Consiglio), alla crisi pandemica esplosa all’inizio del 2020 è stata data una risposta all’insegna della solidarietà, della coesione e dell’unità, l’esatto contrario di quanto era avvenuto con la crisi dei debiti sovrani. Il ritorno della spinta unitaria con l’uscita del Regno Unito

Allo stesso modo, proprio l’uscita del Regno Unito ha consentito lo sblocco di cantieri rimasti fermi per decenni proprio per il veto inglese (l’iniziativa per la costruzione di una difesa comune) e un nuovo approccio macroeconomico della Commissione, sostenuto dal Consiglio che – coordinato da politiche fortemente espansive della BCE – sta comportando una mobilitazione senza precedenti di risorse pubbliche per far fronte alla crisi pandemica, anche attraverso la creazione di un debito comune per il tramite del Recovery Fund. Questo nuovo approccio, di cui beneficeranno gli Stati, le famiglie e le imprese, sembra un formale atto di abiura alle politiche neoliberiste promosse fin dai primi anni Ottanta da Thatcher e da Reagan e quindi adottate in larga parte dell’Europa. Non è facile dire ora se siamo agli albori di un nuovo corso delle politiche economiche europee caratterizzato da un più forte intervento pubblico nell’economia, né se ciò sia frutto (almeno in parte) del venir meno del veto inglese, ma è certo che il Regno Unito all’interno dell’UE ha sempre lottato per un’Europa (e un mondo) di stampo fortemente liberista – in larga misura, con successo. Paradosso della conseguenza: il processo di integrazione si è rimesso in moto

In definitiva, è complesso operare un bilancio tra la sconfitta che Brexit ha rappresentato per l’Europa e le opportunità che si sono create grazie alla stessa. Quel che è certo, è che Brexit ci ha ricordato una lezione che era molto chiara ai Padri fondatori, ma che è stata per troppo dimenticata: e cioè che – finché l’obiettivo della Federazione europea non sarà raggiunto – il processo di integrazione non può semplicemente “fermarsi” ma, come una bicicletta, o si muove, o è destinato a cadere. Il surplace, come su pista, non è contemplato. E dopo oltre un decennio, si è nuovamente messo in moto.

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