Bassi salari e precarietà bloccano crescita e dignità del Paese
di Anna Paschero|
Lo sciopero generale promosso da Cgil e Uil, un successo nelle piazze, ha posto, al di là delle polemiche e delle strumentalizzazioni tipiche di ogni sistema politico, e dello strappo (si confida momentaneo) con la Cisl, una nuova attenzione per le condizioni dei lavoratori italiani, sempre più precari e sfruttati, sempre più esposti per assenze di tutele e prevenzioni a infortuni mortali sul lavoro (ieri se ne sono registrati 4, di cui due hanno riguardato persone che lavoravano in nero), ma soprattutto alle prese con un potere d’acquisto in caduta libera.
Ebbene sì, i lavoratori italiani sono oggi mediamente più poveri di 30 anni fa. E nel caso non se ne fossero accorti (ne dubitiamo), a ricordarlo sono i dati statistici e quelli dei rapporti di organismi nazionali e internazionali, ultimo quello elaborato e appena pubblicato dal Censis (il 55esimo) sulla situazione sociale del bel Paese. Italia al 13° posto in Europa per salari medi annuali
Ma non basta, perché gli stessi dati ci raccontano che la perdita del potere d’acquisto dei lavoratori italiani (-2,9%) è unica in Europa nel confronto con tutti gli altri stati membri, in particolare con quelli a noi fisicamente più vicini come la Germania e la Francia, dove la crescita dei salari medi lordi nel trentennio della globalizzazione (1990–2020) è stata rispettivamente del 33,7% e del 31,1%. Mentre all’inizio degli anni ’90 l’Italia era al settimo posto nella classifica degli Stati europei con il salario medio annuale più alto, adesso si posiziona al tredicesimo posto superata anche dalla Spagna. Intanto ritorna prepotente l’inflazione
Oggi, a fronte di una attesa stangata sulle tariffe di luce, gas, carburanti ed anche generi alimentari, i salari più bassi, che non saranno particolarmente beneficiati dai prossimi sgravi fiscali, verranno erosi da una nuova tassa occulta: quella dell’inflazione. Una contraddizione che appare insopportabile. Quali le cause e gli effetti di questa regressione dell’Italia su scala europea. Intervenendo all’Assemblea di Confindustria il presidente del Consiglio Mario Draghi ha messo sul piatto il progetto di un nuovo patto sociale tra Governo, Confindustria e sindacati. A memoria di chi scrive l’ultimo patto del genere nella storia italiana è stato quello del 1993, che ha sancito la disdetta della scala mobile, meccanismo di adeguamento automatico dei salari all’inflazione. O meglio: i rinnovi contrattuali non sarebbero più stati, da allora, adeguati al tasso di inflazione reale, ma a quello programmato fissato dal Governo nel Documento di Economia e Finanza. Il pesante impatto dell’Euro sui prezzi al consumo
L’impatto dell’inflazione negli anni dell’Euro1 – il big bang è andato in scena il 1 gennaio 1999 con il debutto dell’Euro come moneta virtuale – ha influito, più che sugli altri 11 paesi inizialmente aderenti all’Euro, proprio sull’Italia. Avvenne per effetto degli aumenti percentuali cumulati dai prezzi dei beni di consumo (44%) rivelatisi maggiori rispetto alle variazioni percentuali cumulate sui redditi nominali disponibili delle famiglie italiane (38,5%). La diminuzione del reddito disponibile reale divenne così pari al 3,8%, l’unico con il potere di acquisto in calo in tutta l’area Euro. Fenomeno che appare del tutto italiano a fronte di un evento comune a tutta l’area europea. I fattori che hanno pesato sono molteplici a cominciare allo smantellamento dei Comitati Provinciali Euro. Tali organismi, sia pure non abilitati direttamente al controllo dei prezzi nel delicato passaggio dalla lira all’euro, avrebbero potuto intervenire, segnalando eventuali abusi. Evidentemente, a mio avviso, gli abusi non soltanto non furono tempestivamente segnalati, ma contribuirono per effetto transitivo a dare l’assicurazione di impunità assoluta dinanzi all’innalzamento ingiustificato dei prezzi. Altri fattori possono essere rinvenibili durante l’ultimo ventennio, nella bassa produttività e crescita del PIL, nell’abbandono della politica industriale, nella crisi del 2008, nella politica fiscale e, in ultimo, nell’emergenza sanitaria. Libere osservazioni sul salario minimo
Dallo stesso rapporto del CENSIS, che ci rivela l’esistenza di un mercato del lavoro sempre più sclerotizzato, emerge anche che tra i fattori che impediscono l’inserimento professionale ci sono le retribuzioni disincentivanti che i datori di lavoro – compresa la Pubblica Amministrazione – offrono in cambio di prestazioni lavorative caratterizzate da competenze e capacità adeguate, oggi possedute soprattutto dai giovani. Non deve stupire quindi la fuga di “cervelli” verso altri paesi europei in grado di offrire maggiori opportunità non solo di lavoro, ma anche di retribuzioni più adeguate e anche qui, per effetto transitivo, di maggiore dignità professionale.
Oggi l’Italia si trova tra i 6 Paesi su 27 dell’Unione Europea a non aver adottato un salario minimo universale. Secondo il criterio adottato dall’Unione Europea tale salario dovrebbe essere tra il 50% e il 60% dello stipendio mediano per essere proporzionale al costo della vita (fra 5,60 e 6,70 euro all’ora). In questi giorni la Commissione Lavoro del Senato ha avviato la discussione sulla proposta di legge che dovrebbe dare attuazione alle previsioni dell’art. 36 della Costituzione affinché ogni lavoratore abbia “diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro ed in ogni caso sufficiente ad assicurare a se e alla sua famiglia un’esistenza libera e dignitosa”.
Dopo 73 anni si discute ancora sull’applicazione di una norma costituzionale! Si tratta di capire se fissare a 9 euro – come si prospetta al Senato – la paga oraria al di sotto della quale il lavoro diventa sfruttamento può risolvere il problema o se non sono piuttosto la precarizzazione del lavoro, soprattutto giovanile, il lavoro sommerso e deprivato del contratto, il part – time involontario (imposto per riduzione dei costi) oggetto di intervento legislativo per affrontare nella sua complessità il tema dei bassi salari.
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1L’Euro, valuta comune di diciannove stati membri dell’Unione europea, fu introdotto per la prima volta nel 1999 (come unità di conto virtuale); la sua introduzione sotto forma di denaro contante avvenne per la prima volta nel 2002, in dodici degli allora quindici Stati dell’Unione. Negli anni successivi la valuta è stata progressivamente adottata da altri stati membri, portando all’attuale situazione in cui diciannove dei ventisette stati UE (la cosiddetta Zona euro) riconoscono l’euro come propria valuta legale in:https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_dell%27introduzione_dell%27euro
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