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Angeli nel dolore, Ischia e altro ancora

Aggiornamento: 7 dic 2022


© Foto di Niccolò Zancan, inviato de La Stampa.

di Tiziana Bonomo


Un volto giovane bello, bellissimo, con uno sguardo smarrito, seduto con il fango sui vestiti, sul marsupio che tiene a tracolla, sulle mani. Seduto davanti ad una ringhiera che delimita un’area verde con dell’erba, un albero e un muro con delle scritte. Con uno di quei cappelli sportivi che spesso si vestono al contrario. Nonostante il nero predomini su tutto – occhi, giacca, capelli – la sua compostezza, la sua perfezione, la sua pelle così bianca rimandano ad un angelo, un vero angelo. Siamo ad Ischia, nei giorni della catastrofe climatica e ambientale.

L’ho visto su Twitter sull’account di Niccolò Zancan, un giornalista del quotidiano La Stampa, con una frase del suo articolo apparso il 30 novembre di quest’anno: “Li chiamiamo «angeli del fango». Ma sono indiavolati. E non ne possono più di ereditare disgrazie”.

La foto è sua come le altre che appaiono nel suo articolo, ma questa in particolare racchiude l’essenza della catastrofe. È una immagine in grado di trasferirci la sintesi di quanto è accaduto. Non la prima tragedia purtroppo e neanche l’ultima. Non sta a me parlare di Ischia, ma di quanto un'immagine sia in grado di raccontare lo sconforto, la tristezza, l’incredulità di quello che avviene a causa dell’incuria, della follia dell’uomo senza mostrare morti, sangue, brutture. I ritratti in fotografia possono esprimere, e senza bisogno di aggiungere parole, tantissimo, parlano senza voce, parlano, attraverso lo sguardo il corpo, dell’incredulità di quanto è intorno a loro.


Ecco allora che in questo caso la giovinezza, la bellezza dilatano l’impressione di un’entità che va oltre l’uomo per restituirci istantaneamente l’idea di un angelo. Un angelo sporco che riesce a comunicare la delusione, la stanchezza di ciò che vede. Un ragazzo, un angelo che si batte per noi uomini ma con l’impressione che tutto sia inutile. Adesso è così ma anche domani sarà così?

Un altro domani che avrà già dimenticato tutto quello che questi occhi vedono e che noi grazie a loro vediamo, sentiamo. Sì soprattutto sentiamo. Una trasfusione di calma disperazione, di poetico abbandono che solamente un angelo può fare.


Non posso fare a meno di ricordare altri due volti giovani, belli, smarriti. Anche in loro colpisce il silenzio, la sfiducia. E' un salto all'indietro, nel passato remoto. Entrambi sono appena usciti dalla Scuola di Amministrazione Aziendale (SAA) in via Ventimiglia a Torino, dove è avvenuto l’attentato di Prima Linea, l’11 dicembre 1979, in cui furono gambizzate dieci persone, cinque studenti e altrettanti docenti.[1]

Questi occhi, lo sguardo dei giovani commuovono ma allo stesso tempo fanno voglia di rompere il silenzio di queste immagini con un urlo. Perché si può, si deve urlare quando ci si rende consapevoli di quanto l’essere umano è in grado di generare: ferite, dolore, morte!


Note



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