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Ancora sulle stragi negli Usa

di Michele Ruggiero |

Nel 1996 il romanziere Josh Grisham, nato in Arkansas nel 1955, diede alla stampa The Runeway Jury, noto nella versione tradotta in italiano con il titolo La Giuria (in https://it.wikipedia.org/wiki/La_giuria). Nel 2003, il best seller, sulla scia di altri del noto autore di legal thriller più venduti al mondo – dal Socio a L’uomo della pioggia al Il cliente, a Il momento di uccidere, per citare i più noti e visti sulle reti televisive in Italia – ebbe la sua trasposizione cinematografica. La trama è identica. A cambiare è il soggetto o meglio l’imputato… Nel libro, la “giuria” condanna una multinazionale del tabacco (di lì a poco vi sarebbe stata una storica sentenza sulle responsabilità delle “bionde” e della dipendenza che producono sui fumatori), un’altra delle potenti lobby americane. Nel film, invece, a essere messa sul banco degli accusati è l’industria delle armi, in linea con i numerosi e sempre più frequenti episodi di cronaca che rendevano il film di denuncia decisamente più attuale. In ciò, Hollywood è maestra nella combinazione di business e proposizione di valori morali. Per contrasto, gli stessi studios sono la conferma diretta di quanto possano aver il fiato corto campagne progressiste e moralizzatrici (nel senso nobile del termine) quando si scontrano contro i molteplici interessi di parte che condizionano in maniera soverchiante la società americana. I fotogrammi della “Giuria” ci introducono a New Orleans. La città della Louisiana fa da sfondo a un processo intentato dalla moglie di un impiegato suicida a causa del licenziamento. Ma l’uomo, prima di togliersi la vita, ha ucciso più persone sul vecchio luogo di lavoro, annebbiato dal rancore e dal risentimento. Di qui la decisione della donna di avanzare un risarcimento alla società che produce l’arma. In una suspense continua, dove aleggia sempre la corruzione e il potere dei legali della azienda, si arriva al finale imprevisto: i due protagonisti sono compagno di scuola e sorella di una ragazza uccisa insieme ad altri nel corso di una sparatoria in una scuola, il cui processo contro la casa produttrice delle armi fu perso poiché lo stesso avvocato (interpretato da un magistrale Gene Hackman) aveva comprato il verdetto (in https://it.wikipedia.org/wiki/La_giuria_(film)). Se all’indomani di Uvalde e Buffalo, città che si trascinano dietro un’altra Spoon River tutta americana, persistono ancora dubbi sull’incapacità di voltare pagina degli Stati Uniti nel commercio delle armi, l’unico consiglio che rimane da dare ai lettori è quello di seguire di soldi. Follow the money: si controllino i bilanci e i profitti miliardari delle società dedite alla produzione, alla commercializzazione e alla pubblicità di armi. Poi, si analizzi lo stupidario di motivazioni con cui si giustifica l’importanza di armarsi. In proposito, il processo è graduale, ideale per cloroformizzare le masse. Innanzitutto si vellica il patriottismo congenito degli americani, ricordando loro il II emendamento della Costituzione (il diritto ad armarsi per difendere la nazione) pensato spiritualmente dai padri fondatori, da George Washington, Samuel Adams, Thomas Paine, Thomas Jefferson, John Adams, Benjamin Franklin, John Barry, John Dickinson e altri ancora. In seconda battuta, si rafforza quel patriottismo con l’epica, l’età dei pionieri, il mito della frontiera, come se non fossero passati almeno 150 anni dalle ultime carovane che si inoltravano nel cuore del West, nelle terre dei nativi americani. L’incontro dei due momenti, a quel punto, partorisce il vocabolo che suona puntualmente grottesco ogni volta che telecamere inquadrano i corpi degli uccisi o le bare allineate nelle chiese: sicurezza. Cioè l’uso di scudi umano per garantirsi una libertà che confligge apertamente con la realtà. Dal film “La giuria” sono trascorsi 19 anni, esattamente quanti sono stati i bambini uccisi nella scuola di Uvalde, nel Texas. Ma in America, i dollari a disposizione per la “libertà” di armarsi aumentano in misura esponenziale alla crescita dei conflitti armati, dunque dei morti. Non è un mistero che la National Rifle Association, il cartello delle società di armi, estragga da quella montagna di soldi, in forma del tutto legale e contabilizzata, il “lubrificante” universale per persuadere chiunque nella vita civile, come nella politica, mostri riserve alla diffusione di pistole, fucili, mitragliatori e all’acquisto degli accessori necessari, tute mimetiche, elmetti, “anfibi”, per trasformarsi in un perfetto guerriero del giorno e urlare al mondo in maniera blasfema, per ragioni ahinoi sempre confessabilissime (odio e livore interrazziali, disagio sociale, invidie e gelosie, disturbi mentali, vendette), “dacci oggi la nostra strage quotidiana”. Nel Paese guardato e idealizzato come il “faro della democrazia”, sembra che oggi non ci sia più scampo per le voci dissonanti, se non nei giorni successivi ai massacri che si ripetono con orrida puntualità. Una libertà però a tempo, come ha dimostrato la denuncia del film tratto dal libro di Grisham. È il tempo del pianto per le vittime, della condanna, della preghiera che l’incubo abbia fine, che si spegne a funerali conclusi. Ed è una spina nel cuore del mondo che rischia di alimentare un antiamericanismo che non potrà che avere gravi conseguenze anche nello stesso Occidente. Purtroppo, il degrado culturale e morale che attraversa da anni la società americana è il migliore alleato della lobby delle armi e non offre speranza. Né si può confidare nella catena del dissenso degli intellettuali, democratici in trincea, considerata alla stregua di un fastidio di cui liberarsi, extrema ratio, agitando lo spettro, lo spauracchio della perdita di posti lavoro. Un lavoro che serve però a mettere in lista d’attesa tanti morti potenziali.

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