L'EDITORIALE DELLA DOMENICA. Scenari cupi di un futuro prossimo
di Germana Tappero Merlo
La fine dell’anno è sempre un momento di bilanci, ma per chi fa analisi internazionali è più di previsione con l’elaborazione di rapporti su scenari di crisi e ipotesi circa la loro evoluzione nei mesi a venire. Un tempo oggetto di un paio di articoli di riviste specializzate, questi report sono andati moltiplicandosi negli ultimi anni per il numero elevato di centri studi di politica internazionale, ma anche per i molti organismi presenti in aree di crisi o di conflitto, dalle agenzie delle Nazioni Unite, a strutture e Ong di varia composizione, origine e mission. Ne derivano accurate relazioni di previsioni, in cui non mancano sorprese con squarci su scenari totalmente ignorati dai media nostrani, da cui un quadro dell’evoluzione di quanto è accaduto, sta accadendo, ma soprattutto potrà accadere nei prossimi mesi. Un quadro - quasi banale dirlo - dai toni cupi, decisamente molto desolante, con pronostici che risultano più difficili di un tempo non solo per via di un aumento delle aree da analizzare, ma anche dei numerosi attori oggi coinvolti e per la natura dei fattori scatenanti o aggravanti crisi politiche e umanitarie.
Il ruolo delle Nazioni Unite
E se i report dei tradizionali e più prestigiosi think tank, per lo più anglosassoni, evidenziano la possibile degenerazione di crisi globali fra grandi e medie potenze (Russia-Ucraina; Cina-Taiwan; India-Cina; la minaccia nordcoreana), tanto da risolversi nel corso del nuovo anno anche in vere e proprie guerre, e dedicano le loro ultime e scarse attenzioni a un paio di conflitti già conclamati (Etiopia e Yemen), i rapporti degli organismi delle Nazioni Unite sembrano interrogarsi più su quale potrebbe essere il ruolo futuro dell’organizzazione madre, come la redazione di una New Agenda for Peace (con operazioni di peacekeeping soprattutto in Africa, aiuti al Nord-Ovest della Siria, e il contrasto alla corruzione in Honduras) con soli tre scenari di previsione bellica, come l’Afghanistan[1] (poco o nulla citato in quasi tutti gli altri report, al pari di Iraq e Libia, in una sorta di oblio voluto, come ad eclissare le responsabilità di questa parte di mondo), e gli onnipresenti Yemen e Ucraina. Questi sono però argomenti da big agenda, per quella geopolitica delle grandi potenze dai grandi numeri per lo più legati a grandi interessi per leadership, influenza e addirittura sopravvivenza, con le loro immense faccende economiche, finanziarie, e quindi anche strategiche, coinvolte.
Conflitti ignorati e conflitti "esaltati"
Perché, poi, di fatto, il pianeta è scosso e sconvolto da altri numeri e soprattutto dall’emergere di nuovi elementi di crisi e dal moltiplicarsi di fattori di accelerazione che quei report di previsione, i più blasonati, sfiorano solamente o ignorano beatamente, anche solo per un diverso obiettivo ed approccio analitico. Questo riprodursi di crisi è dovuto alla frammentazione della geopolitica che, dapprima con le guerre in Siria e Libia (la cui situazione critica attuale è totalmente ignorata), e ora con quella in Ucraina (che invece domina quei report), ha visto emergere, sia per autonomia decisionale che per influenza ideologica e militare, anche potenze regionali, di media portata ma agguerrite nell’imporsi in scenari di crisi, e sono per lo più la Turchia, l’Arabia Saudita, l’India e, con tutti i suoi guai interni, anche l’Iran.
Le ambizioni di influenza, proiezione e dominio commerciale pressoché cleptomane, di queste medie potenze regionali vanno così ad aggiungersi a quelle globali, come Stati Uniti, Cina e Russia, che già stanno sconquassando gran parte del pianeta. Non si tratta di un movimento coordinato non allineato con le grandi potenze. Tuttavia, queste di media portata, per lo più non occidentali, percepiscono che si è aperto uno spazio per tracciare ciascuna la propria rotta, e colgono le opportunità offerte da un multipolarismo che si sta facendo strada nella politica internazionale contemporanea. Ed è a questa frammentazione geopolitica che si deve però quel pericoloso stallo della diplomazia multilaterale che, già da prima della guerra in Ucraina, appare sempre più confusa sino a compromettere quelle azioni guardrails che vanno dalla prevenzione, l’early warning, la mitigazione sino alla risoluzione di crisi, le quali, ora, degenerano rapidamente in guerre di varia intensità od accelerano quelle in atto. E per il 2023 si segnalano già preoccupazioni in questa direzione.
La fame, "regina" delle conseguenze
Tutti i report presi in esame[2] concordano che le attuali situazioni di grave instabilità locale e regionale sono dovute soprattutto a conflitti armati (circa 100), anche se limitati geograficamente e in intensità, agli shock da cambiamenti climatici (da cui carestie e/o inondazioni, con l’aumento di flussi di sfollati e di immigrati fuori regione o continente) come pure agli effetti deleteri (soprattutto nell’ultimo anno con la guerra in Ucraina) di crisi economiche e finanziarie anche se scatenate lontano migliaia di chilometri (aumento del prezzo di idrocarburi, materie prime, granaglie e fertilizzanti), ad avvalorare il concetto ribadito alla noia che in una realtà globalizzata nulla è più a se stante.
Questi tre fattori (guerre locali-regionali, clima impazzito ed effetti da crisi economiche) formano un unico, gigante e potente aggregato destabilizzante, un brutale colosso in grado di stravolgere ampie aree regionali che vanno, con drammatica continuità geografica, dall’intero Sahel africano sino all’Asia centrale. Ne deriva così una lunga ed ininterrotta ferita, lacerante e dolorosa, dal Mali al Myanmar, passando dallo Yemen, Siria, Nagorno-Karabakh e Afghanistan, che fa sì che dagli 81 milioni di persone, nel 2014, in gravissima emergenza umanitaria, si prevedano, nel 2023, circa 340milioni, così come dai 60 milioni di profughi si giunga ai 100milioni. Umanità ferita e in movimento, a causa di guerre locali e regionali, più o meno spontanee e a bassa e media intensità, ma pur sempre conflitti di cui approfittano elementi esterni, come le grandi e medie potenze, appunto.
Le feroci guerre nel Sahel per l'acqua
Cambiano lingue, tratti somatici e colore della pelle: ma le caratteristiche e le conseguenze di questo potente insieme di fattori scatenanti ed acceleranti le crisi sono le medesime. E se non è lotta armata a più alti livelli per la presa del potere (Repubblica Democratica del Congo RDC, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana CAR, Niger, Sudan, Pakistan), o per aspirazioni separatiste (Tigray-Etiopia, la più letale del 2022, con stime che oscillano dai 400 ai 600mila morti, nella pressoché totale ignoranza di gran parte dell’opinione pubblica mondiale) o per estremismo ideologico, in particolare jihadismo (in maniera dominante in Mali, Nigeria, Niger, Somalia, Burkina Faso, RDC, Kenya, Mozambico, Afghanistan, Pakistan seguiti, con intensità minore, da Libia, Iraq, Camerun, Benin, Togo, Etiopia), è quella conflittualità di media intensità, locale e intra-Stati (in alcuni casi sono coinvolti su due fronti contemporaneamente), e che non risparmia nessuno dei Paesi del Sahel, per l’accaparramento di acque e terre per il pascolo e l’agricoltura, messi a dura prova dai prolungati shock climatici (in Somalia si va verso il sesto anno di siccità), da cui la violenza contro civili anche solo per il controllo dei percorsi di transumanza che attraversano però ampie regioni, se non interi Stati. E pensare poi che i paesi coinvolti non sono nemmeno responsabili dei più gravi turbamenti climatici, contribuendo solo all’1,9% delle emissioni globali di CO2. Eppure, ne soffrono le peggiori conseguenze.
Alle prese con pandemia Covid e colera
Molti di questi conflitti, seppur locali, sono però anche internazionalizzati, ossia dove almeno un Paese straniero, anche da fuori continente, fornisce truppe o forze combattenti private (la russa Wagner nel Sahel; mercenari stranieri in Yemen). Ne deriva il rischio che quei più recenti conflitti acquisiscano le caratteristiche di quelli già in atto da anni, con più soggetti armati e relativi interessi coinvolti, come per la Siria, Yemen, Somalia, Libia, e che si rivelino più letali oltre che più duraturi - in media dai 9 ai 12 anni - e dove ad essere colpiti sono per lo più le infrastrutture e le popolazioni civili (Ucraina, Siria), sino a giungere alla barbaria di bombardamenti di campi profughi (Idlib, Siria). E un prolungato stato di belligeranza porta a carenze nelle strutture sanitarie, demolite o anche solo stressate, con il risultato di non riuscire a provvedere alle emergenze quotidiane ma anche ad epidemie, e sono solo da Covid. Il colera ha seminato morte in Siria, Yemen, CAR, Libano e persino nella lontana Haiti, segnalata come area di grave instabilità e crisi umanitaria perché oramai in mano a bande di criminali, da cui una protratta azione armata e continui disordini civili.
La proliferazione di "pompieri piromani"
E poi vi è il proliferare di attori armati non-statali, con l’aggravamento di tensioni e conseguenze per i civili, dato che il taglieggiamento delle attività locali, già povere e ridottissime, la lotta per il controllo armato del territorio, soprattutto dei passaggi degli aiuti assistenziali alimentari e sanitari (con estremi quali la distruzione di riserve di cibo o l’avvelenamento delle acque, come accade in Somalia da parte di al-Shabaab) e, per tutti costoro, nessuno escluso, l’uso dello stupro come arma da guerra, nella totale impunità, sono i loro strumenti quotidiani per l’usurpazione e il dominio locale e regionale. E se si parla di gruppi armati non-statali non si tratta solo dei più noti jihadisti, in quegli scontri pressoché quotidiani per ostinate insurrezioni islamiste fra forze locali legate ad al-Qaeda e quelle pro-Stato Islamico (Afghanistan, Mali, Ciad, Somalia, Nigeria, Niger, quest’ultima con il maggior numero di vittime civili per mano jihadista).
Vi sono anche gruppi ribelli non jihadisti, come i tuareg del Mali, che combattono contro forze di governo locale ma sono al contempo bersaglio di combattenti sia qaedisti che dello Stato Islamico; oppure i c.d. “vigilantes”, ossia forze non regolari arruolate da forze politiche o di opposizione locali per rafforzare o contrastare chi è, legittimamente o meno, al governo (Myanmar, CAR, Burkina Faso, la regione orientale dell’RDC) e che sovente si arrogano il diritto dell’uso legittimo della forza per sferrare violenze sui civili al fine di creare terrore e instabilità, e sfruttano così le tensioni per mobilitare quelle genti a proprio sostegno, coerentemente con quel loro ruolo di pyromaniac firefighters, pompieri piromani, che gli viene ormai attribuito.
Cento fronti bellici nell'indifferenza o quasi
I report di fine anno, tuttavia, analizzano a fondo solo dalle 5 alle 10, massimo 20, crisi e/o conflitti sui circa 100 fronti di guerra attualmente in corso: evidenziano quelli a rischio (limitato) di deflagrazione come fra Cina e Taiwan, oppure di ripresa (più probabile) come in Siria, Yemen, RDC, Etiopia, Sud Sudan, Nagorno-Karabakh, e tastano il polso ad una comunità internazionale che, soprattutto per gran parte di quel Sud del mondo, considera la tanto supportata guerra in Ucraina come un affare solo europeo, là dove tutti i governi occidentali preferiscono combattere la Russia più che concentrarsi sulle conseguenze nefaste dovute ai meccanismi di una economia globale, accaparratrice e ingrata, che ora li ha ridotti a vittime di quegli scontri con relativa usurpazione delle loro genti e dei loro territori, esclusivamente per il controllo di fonti strategiche. Ed è comunque una Russia a cui, gran parte proprio di quel Sud del mondo, ancora guarda con rispetto per legami storici, per il commercio e, per taluni, anche dipendenza, a buon mercato, dai servizi offerti dai mercenari del gruppo Wagner. E qui, il vortice di violenza riprende vigore.
L’ignoranza oppure, e sovente, l’indifferenza di questa nostra parte di mondo circa quelle situazioni significano così crisi irrisolte, per lo più umanitarie che in tal modo non ottengono l’attenzione adeguata per l’avvio di aiuti diplomatici e di supporto internazionali, finendo per allargarsi sino a perpetuarsi, degenerando in altri conflitti, più o meno limitati, in una spirale di violenza e sofferenza che, come un lento ma fatale tornado, soffia e si sposta fino a lambire, a quel punto, anche i nostri confini e i nostri territori. Nessuno deve più pensare stoltamente, ipocritamente e arrogantemente, di esserne totalmente estraneo ed immune; e nemmeno permettersi di ignorarle, perché gli strumenti di conoscenza ci sono, e basterebbe solo la volontà, soprattutto politica, di recepire per cooperare. E che almeno questo, a fine di questa breve e non certo esaustiva elencazione di disperazione, sia il buon auspicio per il nuovo anno.
Note
[1] https://www.laportadivetro.com/post/l-editoriale-della-domenica-afghanistan; https://www.crisisgroup.org/b8-united-states/ten-challenges-un-2022-2023 [2] Fra i tanti esaminati, segnalo i più attendibili e completi, https://www.crisisgroup.org/global/10-conflicts-watch-2023; https://www.rescue.org/article/top-10-crises-world-cant-ignore-2023; https://www.icrc.org/en/document/humanitarian-crises-world-cant-ignore-2023
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