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8 ore di sciopero per dividere. Quante ne occorreranno per unire?

di Adriano Serafino|

Non ho dubbi sul fatto che sia una iattura la divisione sindacale per uno sciopero generale. Non ho dubbi perché così si rompe l’unità d’azione confederale che si era costruita, seppure su una piattaforma datata, definita ancora prima dell’inizio della pandemia Covid-19. Certo, può servire per accendere il dibattito su grandi problemi, ma molto meno per ricostruire l’unità tra i lavoratori selezionando le priorità decisive in questa fase per una direzione di marcia diversa del nostro sistema socio-economico. La mia esperienza sindacale mi fa dire che divisioni come quelle di questi giorni, anche per le modalità con cui sono avvenute, si possono trascinare per lungo tempo. Certo ci possono sempre essere eccezioni. E me lo auguro e non sono auguri di circostanza. Alcune piazze si riempiranno per amplificare le più che giustificate “grida manzoniane” sottolineando il disagio sociale e le crescenti disuguaglianze accentuatesi con la pandemia, nonché la denuncia di questa maggioranza governativa che destina risorse (caricate a debito!) anche per fasce di reddito che non necessitano di sostegno, per esempio l’estensione del bonus facciate, l’abolizione dell’ultima aliquota irpef e qui mi fermo… All’opposto, il governo Draghi frena sulla riforma del catasto per la quale le tre Confederazioni non hanno avuto, è doveroso sottolinearlo, la determinazione di farne un caso per reperire risorse per meglio tutelare i bassi redditi. Ma entriamo nel merito dello sciopero del 16 dicembre. Personalmente non condivido la scelta e il modo a cui si è pervenuti a questa rottura poiché ho buoni motivi di pensare che fosse possibile, come sostiene Savino Pezzotta (segretario generale della Cisl al 2000 al 2006) sulla pagina di facebook “Prendere parola”, indire due ore di sciopero con assemblee sui luoghi di lavoro per discutere con i lavoratori, per fare comprendere quali margini esistessero ancora o meno a fronte del limitato tempo e del blocco a modifiche imposto dalla maggioranza di governo. Più volte il sindacato ha fatto ricorso nella sua storia allo sciopero con assemblee per cercare l’unità su come proseguire “sentendo il polso” dei lavoratori. Operazione altrettanto doverosa quando si rappresenta milioni di iscritti in una contrattazione con il governo. Quanto è già avvenuto, pochi giorni fa, con il flop dello sciopero generale nella Scuola, mancava solo la Cisl tra le tante sigle sindacali presenti in questo importante settore, dovrebbe agire come supplemento di riflessione nei “quartieri generali” dei sindacati. Non condivido peraltro l’operato del segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra, confederazione cui sono iscritto dal oltre sessant’anni. Ascoltando Sbarra in Piazza Castello, a conclusione della manifestazione unitaria di sabato 27 novembre, sono rimasto negativamente impressionato dal suo comizio da “tribuno della plebe”, demagogico nonché irresponsabile, stante le scelte che aveva certamente già in testa. C’è chi invoca un patto sociale stante l’emergenza sanitaria, la riconversione ecologica e la transizione digitale. Domandiamoci se sia possibile. In proposito, mi ritrovo ancora sulle posizioni di Savino Pezzotta: un patto sociale per essere tale deve includere alcuni paradigmi di riferimento come ad esempio: equità fiscale e progressiva; garanzia dell’erogazione dei servizi universali quali sanità e scuola; ammortizzatori sociali che garantiscano la mobilità da posto a posto di lavoro con adeguati percorsi di formazione e di aggiornamento professionale; superamento della precarietà (abolendo molte forme contrattuali) con un accesso al lavoro potenziando l’apprendistato e poi consentendo la flessibilità (prestazioni lavorative a termine in questa o quell’azienda) con lavoratori assunti a tempo indeterminato – con norme che definiscano buone retribuzioni e aggiornamenti professionali programmati – con un contratto in capo ad un’agenzia pubblico-privata. Il tutto per non perdere la speranza e la perseveranza. E dunque serve un modello di democrazia sindacale diversa da quella di oggi, una democrazia che dia la parola, con appropriata informazione e assemblee, alle diverse centinaia di migliaia di Rsu, agli iscritti, ai lavoratori, anziché decidere – in nome di chi si pensa di rappresentare – solo con gli organismi statutari nazionali. È una strada difficile che si è fatta ancora più in salita e ora reclama più coraggio e determinazione anche per contrastare quel pensiero di centro-destra che “spara“ sullo sciopero di Cgil-Uil, ma mira più a lato, per disperdere il valore, il significato del diritto dello sciopero come percorso sociale per cambiare la società con più giustizia, più uguaglianza, più solidarietà e più democrazia partecipata dal basso.

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