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2021: se provassimo a fare a meno dei sondaggi?

di Emanuele Davide Ruffino e Germana Zollesi |

Meglio formulare fervidi voti augurali per il nuovo anno, perché fare previsioni, considerati cos’è successo nel 2020, è piuttosto scoraggiante. A farne le spese è stata anche la marea di inchieste e previsioni che, come insegnava Leopardi, più che predire il futuro elargivano speranze. A far mente locale, una volta c’era un mondo, soprattutto quello politico, che non riusciva a vivere (alias pensare) senza sondaggi e, soprattutto non riusciva a prendere una decisione, senza prima “sondaggiare” quale sarebbe stato il grado di apprezzamento rilevabile sul corpo elettorale. I ripetuti flop commessi, hanno diminuito la loro capacità d’influenza: la statistica, definita “la meno esatta delle scienze esatte”, contribuisce sicuramente ad aumentare le conoscenze sulla realtà, ma non viene più considerata la verità assoluta. Il problema è che la classe politica, senza il sondaggista che gli dice cosa fare, sembra non più in grado di prendere una decisione, mettendo anche in crisi i quadri intermedi spesso assuefatti ad un bieco asservimento del potere. Ma, nel permetterci una citazione storica, ricordiamo che l’ammiraglio Orazio Nelson, l’eroe di Trafalgar, diceva che un buon ufficiale è quello che sa disubbidire al momento opportuno… In realtà i sondaggi continuano ad essere predisposti, ma la loro risonanza è decisamente scemata. Le indagini sulle indagini…

Lo studio delle possibilità di errore commesse dai sondaggisti sta diventando un rompicapo per gli esperti di statistica. Il fallimento più clamoroso degli ultimi anni è sicuramente quello relativo alle elezioni americane del 2016, sebbene anche in quelle del 2020 qualche rischio si è corso. Diverse sono le società scientifiche, tra cui la più autorevole è l’American Association for Public Opinion Research (AAPOR), l’associazione di categoria dei sondaggisti americani che, di fatto, ha cominciato a svolgere “un’indagine sulle indagini” individuando possibili ragioni che hanno provocato il fallimento dei sondaggi. Da questo genere di studi si possono ricavare una serie di considerazioni: 1) Gli elettori dell’ultimo minuto: i sondaggi non possono rilevare le decisioni non ancora assunte e queste possono essere prese su parametri non ancora noti. 2) L’individuazione delle coorti rappresentative: per quanto raffinati possano essere gli algoritmi predisposti per selezionare un numero ristretto, ma il più possibile rappresentativo, inevitabilmente ci possono essere dei disallineamenti. 3) Sottovalutazione del margine di errore: il dover sintetizzare gli studi effettuati in un solo dato (meglio se ad effetto) induce a trascurare i margini di oscillazione, con la conseguenza di non prendere in considerazione i limiti di validità della ricerca. 4) I nonresponse bias: le persone poco istruite e soprattutto le persone sospettose del governo e delle istituzioni, rispondono con minor sincerità ai sondaggi rispetto alle persone con un livello maggiore di istruzione, e ciò porta a una sovra-rappresentazione di questi ultimi. 5) Il fenomeno sopracitato viene ulteriormente accentuato da buontemponi che, di proposito, si divertono a fornire una risposta diversa da ciò che si pensa. 6) Le paure della maggioranza silenziosa: il non omologarsi a quello che è il pensiero dominante dettato dall’intellighenzia può provocare un certo imbarazzo nelle persone timide o non desiderose di esporsi (gli intervistati subiscono il fascino del political correct e tendono a non esprimersi). 7) Diversità tra espressione di volontà e comportamento effettivo: in perfetta buona fede si può esprimere un parere che può rimanere nella sfera degli auspici ma non tradursi in un comportamento concreto. L’infodemia, effetto collaterale della Covid-19

La pandemia ha generato dei nuovi opinion leader televisivi (virologi, infettivologi, microbiologi) e divulgatori di notizie ed immagini sul web. Risultato: il cittadino (nel doppio ruolo di fruitore dei servizi e di spettatore delle performance mediatiche) rischia di essere sovraesposto alle informazioni. Se queste poi manifestano un alto grado di incoerenza, otre che essere tra loro contrastanti, si rischia di generare una specie di “infodemia” che porta l’individuo a non riuscire più a formulare una propria opinione: ne consegue che, quando intervistati, forniscono una risposta sincera, ma questa può facilmente modificarsi. Un’indagine di Reputation Science, società specializzata nell’analisi e gestione della reputazione, che ha esaminato centinaia di dichiarazioni pubbliche di scienziati e medici durante il periodo della pandemia, ha rilevato non solo come molti esperti abbiano modificato le loro opinioni (solo gli stupidi non cambiano mai opinione), ma come questo ha impattato sul recepito della coorte di ascoltatori, amplificandone, con un processo esponenziale il modificarsi delle opinioni. Si può, di conseguenza, affermare che più si aggiungono esternazioni sul web, più i pareri su come gestire la pandemia diventano discordanti ed inconcludenti. Il problema non va incentrato sul come difendersi da un eccesso di sondaggi, ma piuttosto su come interpretarli (in fin dei conti costituivano un ottimo spunto per avviare discussioni e ragionamenti, su parametri oggettivi, o presunti tali). Il sondaggio è un prodotto a rapido deterioramento, quando completato rischia addirittura di essere già vecchio. Se ne ricava che, se da un lato occorre continuare a raffinare le scienze statistiche per poter disporre di prodotti sempre più affidabili, dall’altro occorre conoscere e gestire le modalità di compilazione (per testarne l’affidabilità) e le potenziali controindicazioni in essi annidati. Un lavoro in più che ci attende per il 2021.

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